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Alessandro Baricco sulla via di Damasco

A un anno dall’inizio dell’emergenza pandemica, non si può certo dire che si siano verificate molte conversioni. La maggioranza delle persone, cioè, ha mantenuto l’interpretazione del fenomeno che aveva fatto propria a marzo del 2020. In termini di osservazione empirica e interpersonale, posso però affermare di non aver finora conosciuto persone che, partite da una visione scettica nei confronti della narrazione dominante, abbiano poi finito per convincersi della sua veridicità.

Ho invece conosciuto un discreto numero di persone che, al contrario, nei primi mesi di emergenza attribuivano alla gestione della medesima una valenza neutralmente tecnica e poi, col passare del tempo, hanno maturato la convinzione di come essa sia contaminata da interessi e volontà politiche.

Il caso di Alessandro Baricco, ebbene, rappresenta una conversione sulla via di Damasco di una certa importanza e appartiene alla seconda tipologia descritta, ovvero quella inerente al passaggio da una visione ideologicamente allineata a una visione critica.

Innanzitutto, è bene ricordare cosa dicesse Baricco soltanto pochi mesi fa. Nel suo intervento all’interno del maxi-spot “The New Humanity” prodotto dalla Lavazza a novembre 2020, lo scrittore ha messo in mostra e tirato a lucido tutti i cliché di quel dogmatismo retorico con cui, da mesi, intellettuali allineati e grandi brand internazionali svolgono l’apologia del New Normal o del Great Reset, ovvero nomi diversi per indicare una società fondata sul distanziamento sociale permanente.

In quell’intervento, Baricco aveva parlato di come la pandemia stesse accelerando i tempi in direzione d’una nuova idea di uomo volta a superare l’esecrabile novecento, di un futuro “più abitabile”, di come “quando si inventa qualcosa di nuovo bisogna essere capaci di dire addio al vecchio”, di come occorra affrontare questa fase con coraggio in ragione delle “incredibili opportunità” da essa offerte. Quattro mesi dopo, l’intellettuale integrato si tramuta in apocalittico e, nell’articolo sottostante di pochi giorni fa, il medesimo scenario pandemico viene descritto come catastrofe recante una valenza di morte. Baricco afferma che gli esseri umani, oggi, “predicano la solitudine, la scelgono e la impongono, come valore supremo: lo fanno anche con coloro a cui non era destinata affatto, come i ragazzi, i malati e le persone felici. Completano questa grandiosa ritirata dal vivere facendo un uso massiccio e ipnotico di oggetti, i device digitali, che erano nati per moltiplicare l’esperienza e ora risultano utili a riassumerla in un ambiente igienizzato e sicuro. Per concludere: vivono appena”.

Dunque, se compariamo il contenuto letterale e decisamente inequivocabile dei due interventi, possiamo concludere che parlare, per il caso di Baricco, di conversione sulla via di Damasco, non è affatto una provocazione né una forzatura.È anche vero, però, che lo scrittore attua questa conversione cercando di mantenere il filo della coerenza teorica. Così come, quattro mesi fa, aveva esaltato la prospettiva transumana del distanziamento permanente in quanto superamento del novecento, oggi attribuisce al medesimo fattore storico-antropologico la colpa della distopia che si sta dispiegando. Dice infatti Baricco: “quella che per brevità chiameremo intelligenza novecentesca non trova soluzioni che non siano obbligate perché quel che sta giocando è un suo finale di partita, la posizione dei pezzi è da tempo determinata da strategie decise nel secolo corso”.

Dunque, secondo quest’impianto interpretativo, la pandemia non sarebbe un’innovazione distopica bensì espressione d’un novecento che non vuole andarsene. Il “nuovo”, insomma, è sempre una cosa bella e giusta. Quando qualcosa ci appare brutto e ingiusto, vuole semplicemente dire che quel qualcosa non è nuovo bensì vecchio.

Orbene, mi piacerebbe spiegare a Baricco che, tanto per cominciare, quando parliamo di un’umanità ridotta a vivere dentro i device digitali, parliamo di un dominio della tecnica sulla vita che – secondo un po’ tutta la filosofia contemporanea da Adorno a Heidegger – ha materializzato il lato oscuro dell’Illuminismo. E dunque il redde rationem a cui assistiamo riguarda gli ultimi tre secoli, cioè tutta l’Era Contemporanea e non soltanto il novecento.

In secondo luogo, l’accettazione fatalistica di quello che accade, il senso d’ineluttabilità di cui anche Baricco si lamenta nell’articolo, discende da una concezione deterministica della storia, dall’idea che il tempo storico volga sempre e comunque verso il progresso: quella concezione che da tre secoli condiziona il pensiero di sinistra e che ha portato quest’ultimo a sostituire la prospettiva dell’emancipazione sociale con l’apologia incondizionata della tecnica. E il principale dispositivo ideologico-retorico con cui questo passaggio è stato attuato, è constato proprio dell’attribuire al concetto di “nuovo” un valore morale positivo, una proiezione idealistica e fanatizzante, scollegata dalla realtà storica della specie umana.

Dunque, vorrei dire a Baricco che, per cogliere realmente la radice dei problemi che lui a differenza di tanti altri ha la sensibilità di percepire, alla conversione deve associarsi l’apostasia. E specificamente il rinnegamento di quel paradigma farneticante, su cui lo scrittore ancora insiste, secondo cui il concetto di nuovo dovrebbe coincidere col concetto di Bene.

Riccardo Paccosi

In copertina: Caravaggio “Conversione di San Paolo”. 1600-1601

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