Body Positivity: falsa coscienza ed ipocrisia diffusa nella “società inclusiva”
Su suggerimento di un amico mi sono imbattuto in un’analisi interessante, che credo meriti un commento dedicato (link). In quest’analisi si afferma come nell’ottica neoliberale della “body positivity” un problema come l’obesità, che presenta indubbi fattori di rischio per la salute, venga promosso non solo come ingiudicabile, ma persino come qualcosa da presentare sotto forma di orgoglio, come un’ostentazione normativa.
Nel pezzo troviamo scritto: <<Invece di mettere in discussione uno stile di vita e consumo che produce milioni di persone sovrappeso e con problemi di salute (…) l’essere sovrappeso diviene la base di una battaglia culturale tra le più importanti della contemporaneità per affermare il principio che “tutti i corpi sono belli e non possono essere giudicati”.>> A rendere più concreto l’argomento, l’analisi correda l’argomento con il riferimento ad un articolo dove si parla della “Nazionale italiana ‘curvy” di calcio”.
Curiosamente l’analisi legge questo fenomeno attribuendolo ad una “cultura dell’inclusione, secondo cui non ci deve essere alcun discorso / orizzonte di senso comune da cui possano scaturire limitazioni o giudizi sulle manifestazioni della vita individuale.”
Ora, queste osservazioni non sono prive di meriti, ma a mio avviso sono anche parecchio fuorvianti: una verità parziale viene esposta, ma esponendola si lascia in ombra un altro lato, e ciò può creare qualche serio imbarazzo teorico.
Partiamo dal riferimento alla “cultura dell’inclusione”. Difficile non saltare sulla sedia di fronte ad un’attribuzione all’individualismo occidentale (e al neoliberalismo) di una “cultura dell’inclusione”.
Senza spender troppe parole a questo proposito, esiste una letteratura immensa che mostra come la cultura occidentale, in particolare quella liberale e neoliberale, sia probabilmente la meno inclusiva della storia umana, almeno con riferimento ai membri “interni al gruppo” (connazionali, concittadini, ecc.). La cultura liberale e neoliberale è una cultura che promuove come valori portanti la competizione, non la cooperazione, e predica e alimenta il mors tua vita mea ad ogni livello sociale.
Dunque il nostro analista sarebbe stato semplicemente vittima di un’illusione ottica? Questo sarebbe ingiusto. Qui credo che il problema stia soprattutto nelle scelte espressive: ciò che viene chiamato – credo improvvidamente – “cultura dell’inclusione” è in effetti solo una “retorica normativa dell’inclusione”.
La nostra cultura è tutt’altro che inclusiva. Al contrario essa impone un intero edificio di norme sociali miranti all’ottimizzazione del successo personale a scapito del prossimo.
Questa tendenza raggiunge spesso livelli parossistici, ignoti in altri contesti antropologici, giacché presso di noi può persino spesso accadere che un soggetto provi un persistente fastidio per il proprio sé stesso reale (odierno), in quanto competitivamente inferiore all’auspicato sé stesso di domani. Invero, la “scontentezza di sé” – con connessi esiti depressivi – come esito di un atteggiamento strutturalmente competitivo, persino con sé stessi, è una cristallina manifestazione della cultura liberale e neoliberale.
Però è perfettamente vero che all’interno della nostra cultura tale normativismo competitivo si è visto affiancato sempre più spesso da un atteggiamento che apparentemente sembrerebbe antitetico: l’imposizione non solo a “non giudicare” (che può essere un buon consiglio in generale), ma l’imporsi di una retorica normativa che si propone di incensare, lodare, di creare un’aura di orgoglio rispetto a tratti diffusamente riconosciuti come problematici (es.: l’obesità). Questo atteggiamento sembra emergere come moto culturale compensativo, per rimediare ai danni del normativismo competitivo.
E’ in quest’ottica che possiamo scorgere quei processi, oggi così frequenti, in cui tratti comunemente riconosciuti come difetti, malattie o minorità, vengono celebrati come se dovessero rappresentare un inaspettato motivo di orgoglio. Si tratta di quello stesso moto culturale per cui una “disabilità” viene ribattezzata come “diversa abilità”.
Ora, si potrebbe pensare – e certamente questo è quanto ritengono i promotori di questa tendenza culturale – che un processo del genere è qualcosa di giustificato dall’esigenza di porre rimedio alla ferocia del competitivismo e alla sua tendenza esclusiva.
Ciò che però sfugge a tali promotori è che questo movimento non sviluppa affatto un’opposizione al competitivismo neoliberale. Al contrario, paradossalmente, ne riconferma la validità, creando le premesse per una sua vittoria totale senza oppositori.
Infatti due sono le caratteristiche fondamentali dell’atteggiamento neoliberale: un NORMATIVISMO INVASIVO (a dispetto del riferimento etimologico alla “libertà”) e una concezione GERARCHICO-COMPETITIVA del valore dell’esistenza.
Sul piano del NORMATIVISMO, all’obbligo morale ad essere competitivi secondo le usuali scale sociali (denaro, carriera, ecc.) fa riscontro, sul piano che si presume compensativo, l’obbligo morale ad accettare diverse, ulteriori scale di misurazione. L’accento sulla normatività non dà una chance all’accettazione spontanea dell’altro, o allo spontaneo apprezzamento del diverso (tutte cose che, in un mondo lasciato a sé, accadono, non nella maggioranza dei casi, ma accadono). No, qui tutto dev’essere normato. Perciò, simultaneamente, ti comando di cercar di essere il più X (intelligente, forte, veloce, magro, bello, ecc.), e poi ti ordino anche di DICHIARARE massimamente apprezzabile essere non-X. Questa duplicità normativa crea strutturalmente una falsa coscienza ed un’ipocrisia diffusa come seconda natura.
Sul piano GERARCHICO-COMPETITIVO, viene conservata intatta l’idea che si sia pienamente degni, pienamente di valore, solo se in qualche modo “vincenti”. Siccome nel mondo dei valori ordinari, se solo i vincenti sono degni avremmo necessariamente una maggioranza che si deve percepire come indegna, allora, per evitare questo esito senza modificare di una virgola il paradigma, si inventano nuove forme di essere “vincenti”. Invece che mettere in discussione il paradigma dove c’è piena legittimazione solo per i vincenti, si moltiplicano le occasioni in cui qualcuno può sentirsi, magari per cinque minuti, magari per una competizione creata ad hoc, comunque vincente. Così la nostra società moltiplica a getto continuo le più varie (e spesso improbabili) forme di competizione, che al tempo stesso devono consentire a tutti di sentirsi occasionalmente dei “vincenti”.
Illustrazione di copertina: Fernando Botero