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Censura soft

Non c’è giorno che un amico di social non annunci di essere stato censurato, vuoi per una segnalazione di un pubblico ostile, vuoi perché un algoritmo, capriccioso quanto stupido come è giusto che sia, ha sgradito una foto pruriginosa o un link che non rispetterebbe i comuni principi di appartenenza alla “comunità”.

Ormai ci si fa un vanto dell’ostracismo informatico, come un tempo quando si affabulava di clic e ronzii sospetti nel telefono che dimostravano con certezza che nell’iperuranio della Telecom e prima della Sip, un maresciallo era incaricato di occhiuta sorveglianza.

Se non ti intercettano, se non ti censurano sei un signor Nessuno e non puoi far altro che ammirare e invidiare la combinazione vincente del collaudato manager di se stesso, legato a doppio filo alle multinazionali statunitensi che hanno recintato il web all’interno delle geografie dei social network, che prima di essere “tagliato” intercetta e pubblica i propositi indecenti dell’arcaica e crepuscolare tv di regime.

Beato lui, sorprendente tycoon che si è conquistato come altri immeritevoli  il potere di dettare le priorità e di stabilire i ruoli da protagonista nella gerarchia delle notizie, grazie allo stesso sistema che usa la ditta della quale è vezzeggiato testimonial, trasformare i suoi follower su Instagram o i suoi consumatori su Youtube, in produttori e riproduttori di consenso in modo da moltiplicare i suoi profitti di uomo-merce, proprio come Amazon ha come core business i dati che regaliamo a Bezos e che lui rivende.

Altro che censura, i vigliacchetti della Rai si sono prestati a fare da cassa di risonanza e audience alla sua indignazione un tanto al metro secondo i criteri di Tik Tok, da smerciare a possessori di falsa coscienza e residenti di una realtà artificiale globalista dove passioni, sdegno, partecipazione sono più superficiali dei suoi tatuaggi.

Il fatto è che tutto nel teatrino della comunicazione e dell’informazione è come in quello dei pupi, finte le spade di legno, finti gli sganassoni, finto il sangue sul petto del valoroso  spadaccino con l’armatura di latta. Talmente finto da convincere i più che in realtà noi godiamo di ampia libertà se possiamo dire che quella è salsa di pomodoro, che alle minacce non seguirà il colpo di pistola o la galera, che ben altro succedeva sotto il Ventennio, quello di prima e anche quello dopo, che tolse la calzamaglia coprente alle ballerine, zittì Biagi, è vero, ma aprì i microfoni alla barzellette scollacciate del Drive In e alla Satira del Bagaglino.

Vuoi mettere adesso che le notizie non le danno i giornali, adesso che la comunicazione istituzionale, salvo quando si esprime per sommi capi il sommo capo poco incline all’affabulazione, avviene sui social proprio come le ricette della sora Cesira, adesso che tra un gattino e una peonia fa la sua comparsa un sonoro bombardamento su Gaza, che inframmezzata tra una poesia di Bukowski e l’ultimo menu di Salvini veniamo informati degli ultimi caduti sul fronte del lavoro, sicchè le profezie di Debord e ancor più quelle di Orwell sembrano scadenti imitazioni della realtà.

In questa parvenza di libero accesso all’informazione e ancora più libero uso dell’opinione, le forme di censura nella rete, fastidiose certo, sono  per lo più casuali ed accidentali, strategicamente animate da robot e automatizzate. Perché la grande invenzione per rafforzare, senza farlo parere, la spirale del silenzio, destinata a assorbire e tacitare chi la penserebbe “diversamente” ma si lascia assimilare per paura di ritorsioni, isolamento, emarginazione, è quella di generare e incrementare il chiacchiericcio, quel brusio globale nel quale le voci finiscono per essere indistinguibili e si confondono, diventando insignificanti. L’importante è che siano suoni che concorrono al mantra che magnifica il mercato e rispettose del bon ton politicamente corretto, quello che autorizza le differenze per incrementare le disuguaglianze.

Mentre si zittiscono con la condanna morale li poche voci eretiche escluse da quel che resta della stampa ufficiale, si levano invece dal borbottio, che a Foucault ricordava quell’incessante e delirante colonna sonora dei manicomi, i messaggi roboanti delle autorità, soprattutto quando intimidiscono, lanciano allarmi, chiamano alla mobilitazione e a raccolta come squilli di tromba prima della battaglia, come scrive Andrea Zhok parlando dei richiami, degli avvertimenti, dei moniti che “hanno qualche plausibilità di superare significativamente la soglia del rumore di fondo” e che parlano l’esperanto del “sistema dei poteri egemoni”.

A quelli dotati di potere assoluto, normato da leggi scritte in studi internazionali che hanno la facoltà di dettarle a governi e istituzioni, applicato tramite teorie, paradigmi e algoritmi, legittimato dal concorso del perenne stato di necessità con i demoni della peste contemporanea e futura,  propagandato come unica soluzione  a garanzia di una sopravvivenza a imitazione della vita, non dispiace che un certo numero di voci minori e minoritarie violino le direttive egemoniche, al contrario, aiutano a accreditare quella simulazione di libertà che ci è concessa solo perché il controllo sociale totale è impraticabile.

A caso ogni tanto viene zittito qualcuno, qualcuno ridicolizzato, qualcuno sanzionato secondo criteri stabiliti con l’appoggio di influenti che lamentano, loro, violazioni della privacy, che denunciano oltraggi da tribune ad  uso esclusivo, qualcuno viene apparentemente censurato in modo che la sua ricomparsa venga interpretata come il raggiungimento di standard trasparenti, o, peggio, come una abiura da posizioni irrealistiche e convinzioni criticabili.

Intanto la scure censoria si abbatte davvero su quelli che la voce non ce l’hanno, quelli esausti che la sera si assopiscono davanti a Porta a Porta sperando di risparmiarsi  l’estrema beffa, quelli che non sono in rete per la Dad e nemmeno per Facebook, quelli ai quali, quando è iniziata la grande narrazione dell’apocalisse, è stato concesso onore al merito in veste di essenziali, purchè non dessero voce al malcontento dei tram stracolmi, dei posti di lavoro insicuri, dello sfruttamento raddoppiato e delle minacce sussurrate di ulteriori fatiche e precarietà. Colpisce i sanitari che si ribellano ai comandi criminali che ostacolano l’esercizio della professione, all’obbligo di somministrazione, all’imperativo di diventare piazzisti e testimonial di merci incompatibili con il loro giuramento. Colpisce quelli che non hanno più le piazze per gridare la loro collera di disoccupati, senzatetto, malati trascurati e umiliati.

Anna Lombroso

Illustrazione di copertina: Sebastian Pytka

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