c'era una volta la fine di un'epoca
Società

C’era una volta la fine di un’epoca

Ricordo il momento in cui tutto si è fermato, il mondo e le nostre vite messe in pausa da un nemico invisibile. Eravamo spaventati, confusi, offuscati, i giorni si alternavano senza distinguersi l’uno dall’altro, saturi del susseguirsi di sirene che rompevano i nostri inquieti e tormentati silenzi.

Qui a Codogno siamo stati i primi a viverlo, i primi a non capire realmente cosa stesse succedendo, catapultati al risveglio di quel 21 Febbraio in un clima surreale, un mix di panico e inquietudine così alieno per le nostre generazioni.

Era la fine di un’epoca.

Certo è facile oggi, con il senno di poi, riordinare gli eventi e ripercorrerli con la mente fredda di un ricordo lontano, seppur decisivo come lo è stato per tutti noi, ma allora era diverso, tutto era diverso. Noi eravamo diversi. Nell’aria non c’era solo quel maledetto virus, ma si percepiva anche il peso dell’ignoto e più si cercavano risposte, più affioravano nuove domande.

A dire il vero già da tempo si avvertiva il sentore che qualcosa non quadrava nel mondo, ma non volevamo vederlo, se non in maniera superficiale, ed è incredibile pensare oggi a quello che abbiamo vissuto, inspiegabile come derivasse proprio da noi stessi la volontà  di rimanere costantemente in uno stato di ubriachezza.

Eravamo le generazioni del progresso da inseguire a tutti i costi, le generazioni del debito inestinguibile, dell’eco senso di colpa e delle barriere da abbattere. Dubbi e domande servivano solo per alimentare le nostre profilazioni sui social network ai quali regalavamo ogni tipo di informazione personale in cambio di uno spazio dove poter mostrare a nostro piacimento il riflesso di noi stessi, un posto virtuale dove potevamo apparire, dove ci sentivamo connessi. Al contrario eravamo più divisi che mai, uniti solo da un destino comune.

Ma era proprio in quella perenne ambiguità  di ideologie mascherate di retorica che calava il tramonto della nostra libertà .

Foto: Andrea Forlani

Non ce ne rendevamo conto a quel tempo, convinti con presunzione di essere i protagonisti del momento più alto della nostra umanità , ma in realtà  stavamo toccando il fondo.

E’ sbagliato cercare significati a tutti i costi, soprattutto davanti a una malattia, ma era difficile non avere almeno il dubbio che in qualche modo fosse la logica conseguenza di una società  che non aveva altra soluzione se non quella di pigiare sul tasto “reset“.

Quei giorni a Codogno guardavamo fuori dalla finestra la piazza deserta, increduli come in un film osservavamo in silenzio le immagine lente e desolanti, rese ancora più amare da un cielo grigio che di certo non aiutava i nostri stati d’animo. Eravamo isolati nel centro del male con la paura che quell’area di contenimento potesse trasformarsi in un inferno per noi, per la nostra salute messa sempre più a rischio.

Nonostante quel senso di disorientamento, i primi raggi di sole ci hanno portato a riscoprire noi stessi, le nostre origini, a rivivere la campagna, come un salto indietro nel passato, quando eravamo piccoli e ci divertivamo a tracciare scorciatoie nei campi, quando non avresti mai immaginato di vedere un mondo fatto così.

Ma è durato poco. Quel nemico invisibile non guardava in faccia a nessuno e si è propagato ben oltre la nostra zona rossa. Ormai eravamo tutti militarizzati e per la prima volta abbiamo scoperto sulla nostra pelle che nel nome della salute è possibile sospendere le libertà personali, a volte addirittura le regole basi della democrazia. Ma era giusto così, perché mentre ci veniva chiesto di stare in casa, abbiamo anche scoperto il grande cuore di persone che ogni giorno si battevano per sconfiggere quella bestia. Eroi.

Come in un quadro di Edward Hopper, per le strade c’era solo solitudine e attesa, e le uniche pennellate di colore erano alcuni striscioni consolatori che a volte prendevano vita in vaghe dimostrazioni di patriottismo da balcone. “Andrà tutto bene” era lo slogan, forse un po’ infantile, a volte irritante, ma era comunque un modo per esorcizzare la paura e il dolore per tutte le persone che se ne andavano, in silenzio, senza poter regalare un ultimo sguardo alle proprie famiglie. Una solitudine ancora più triste e straziante della morte stessa, un addio senza dignità .

Era la tragedia di tutti, non di un solo popolo. E quando riguarda tutti, non puoi nemmeno affidarti alla compassione. Eravamo una moltitudine di isole, uniti nelle nostre solitudini, connessi, ma abbondonati alla nostra sorte.

Foto: Matthew Henry

Ricordo che provavo a comporre canzoni ma non riuscivo, mi rendevo conto per la prima volta nella mia vita che anche la musica non bastava più. Sì, non era abbastanza, un’affermazione che facevo fatica ad accettare, quasi blasfemia per uno che ci aveva dedicato l’intera vita.

Ma anche quelle poche regole metriche necessarie in quel momento mi stavano strette. Mentre le nostre libertà individuali venivano sottratte senza garanzie di riaverle indietro completamente, sentivo la necessità  di abbattere qualsiasi paletto.

Un cosa che mi riportava alla memoria gli ultimi anni di mio padre, quando ormai stanco e insofferente verso una società alla quale non si sentiva più di appartenere, lasciava i suoi sfoghi su fogli di carta sparsi qua e là per la casa. E in quel suo modo di alleviare le ansie e di cercare sollievo rivedevo un pò me stesso; e non solo nelle rughe sul mio viso che in quei giorni si facevano sempre più marcate.

Quanto avrei voluto averlo ancora vicino, anche solo per conoscere il suo punto di vista, per ascoltare i suoi consigli paterni che così tanto mi erano mancati, ma soprattutto per far sentire un pò meno sola mia madre.

E così, come per un gioco del destino, nello stesso ospedale dove anni prima lui si spegneva, in quei giorni nasceva Gaia. Un nome di origine greca che ha in sé la speranza della felicità . Gaia è la percezione della Terra o, come diceva James Lovelock nella sua teoria del 1979, è il pianeta che vive, una differente visione d’insieme in cui la parte vivente e quella inorganica interagiscono così da mantenere un costante equilibrio e preservare la vita.

Gaia è la Terra che respira, in un momento in cui più che mai c’era bisogno di ossigeno.

Perché nel frattempo quel maledetto virus continuava a diffondersi e con esso gli interrogativi su quale sarebbe stata la nostra dimensione di genitori in un futuro che dava poche rassicurazioni. 

E se in passato alcune paure potevano in realtà mascherare la poca propensione a prendere quel tipo di responsabilità, ora invece diventavano così drammaticamente reali. 

Davanti a tutto questo, di contro, la gioia si trasformava in un sentimento ancor più profondo e vissuto, nonostante non potesse essere condivisa con le nostre famiglie come avremmo voluto. 

Foto: Andrea Forlani

In quel limbo, costretti a vivere di più il tempo nelle nostre case, iniziava a crescere la consapevolezza di quello che stava accadendo. Dall’apparente separazione riaffiorava ciò che stava andando perso, la distanza diventava così un modo per riconquistare un’unione vera e più in generale per riscoprire i valori comuni della nostra storia. 

I silenzi a cui ci eravamo abituati ora ci facevano comprendere meglio la pochezza che ci girava intorno, il grande circo di una società che aveva esasperato a tal punto le proprie pulsioni da non avere più nulla da denudare. La linea sottile tra progresso e regresso.

Ed è proprio quando ti stai avvicinando al precipizio che realizzi di avere solo due possibilità: cadere o imparare a volare. 

Ormai è storia, ma oggi sappiamo che questa eredità  arriva da quel periodo determinante, da tutte le persone che hanno sofferto, combattuto, da chi non ce l’ha fatta e da tutti quelli che hanno voluto spiccare quel volo per cambiare e rendere il mondo all’altezza dei nostri sogni. I sogni dei nostri figli.

Come liberati da un inganno narcisistico, abbiamo capito che non siamo noi al centro dell’Universo e che non c’è un’unica strada da seguire come ci veniva indicata, ma un’infinità di varianti e sfumature.

Siamo scampati a un futuro distopico, all’omologazione di un pensiero unico che ci avrebbe addormentati per sempre.

No, quel virus non era una banale influenza. 

E mentre oggi Gaia è ormai una donna, la terra ha ricominciato a respirare.

Mario Percudani

16 commenti

  • Paolo Botteschi

    Una visione del presente al passato, che trasuda una speranza in un futuro, quanto mai prossimo, in chi l’Uomo torni al centro dei nostri pensieri parole e opere.
    Splendido!

      • Giulio Garghentini

        Sono commosso. È vero. Se riusciremo a cogliere questi aspetti scritti così bene, forse sarà servito in qualche modo a salvarci dalla corsa verso il precipizio. A rispettare le diversità ma non perché ci viene imposto da un’offensiva corsa all’omologazione di massa. Tornare quindi a essere veri senza paura di esprimerci veramente e non seguendo questo progressivo annichilirsi del pensiero libero verso quello più accettato dalla massa. Grazie

    • Daniela

      Splendida riflessione.. Ed alla fine questo momento, così doloroso e duro e buio, ci regalerà una consapevolezza nuova nitida e chiara più che mai di ciò che è davvero importante… Ci insegnerà finalmente a fermarci in questa dissennata corsa verso il nulla… Ci farà riscoprire il piacere della Vicinanza.. Della comunicazione… Grazie ragazzi e che sia Buona Vita sempre… Daniela

    • Stefano Scola

      Bellissima riflessione, una nuova speranza, la visione di un futuro che si intreccia con il passato. Bellissime parole e bellissima la frase
      “Ed è proprio quando ti stai avvicinando al precipizio che realizzi di avere solo due possibilità: cadere o imparare a volare”
      Non tutto dipende da noi ma sicuramente ciò che siamo e volgiamo essere influenzerà il nostro futuro e quello di chi ci sta intorno.

  • Roberto Garioni

    È difficile cogliere con le parole le sensazioni, i momenti, le paure e le speranze di tutto questo lungo periodo che stiamo vivendo ma mi sembra che qui, questi aspetti, siano stati colti bene in un testo che si legge piacevolmente e ci porta, noi della prima zona rossa, a delle belle riflessioni e considerazioni. Un bel dipinto di quel che è stato, è e che, si spera, ci porterà tutti ad una vita migliore

  • Sergio Aimar

    Ci siamo conosciuti al matrimonio di Matteo e la tua chitarra ci ha accompagnato durante un fantastico pomeriggio di qualche anno fa. Oggi le cose sono molto cambiate e ognuno di noi deve fare i conti con una realtà spietata che si cela oltre il nostro sguardo. Dentro il tuo racconto c’è la parte migliore del nostro paese, quella che non si arrenderà mai e che anche quando le forze gli verranno meno, avrà sempre un consiglio ed un abbraccio per coloro che portano avanti questo paese.
    Oggi io sono vicesindaco a Cafasse e come te dedico me stesso affinché i principi ed i regali che non sapevamo fino in fondo di avere possano tornare ai nostri figli, a coloro che sono il futuro e che avranno la capacità di apprendere l’insegnamento di questi giorni neri.
    Ivano Fossati ha scritto: ”C’è ancora speranza per questo mondo, civilizzato soprattutto dai poeti” e io vorrei aggiungere ”da tutti coloro che credono in questo mondo”
    Da Cafasse UN ABBRACCIO A TUTTA CODOGNO
    Sergio Aimar

    • The Unconditional Blog

      Ciao Sergio, ti ringrazio per aver letto il mio pensiero e per il tuo bellissimo commento. Sono sicuro che questo periodo buio risveglierà tante cose positive. Un grande abbraccio da Codogno a Cafasse e speriamo di rivederci presto!

  • Andrea Donati

    Bellissima riflessione, riesci a trasmettere le emozioni, che sempre regali quando suoni, anche attraverso le parole: perché a trasmettere queste emozioni non sono le tue dita mentre accarezzi le corde delle chitarra o mentre digiti sulla tastiera del pc, ma la tua anima. Grazie Mario.

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