Cultura,  Società

C’era una volta…

Nella regione di Oleshkovsky, Ucraina, un patriotico sciame di api fugge dal proprio alveare e attacca un gruppo di soldati russi, tre morti e venticinque feriti. Il volo di due eroiche oche selvatiche fa precipitare un aereo dell’esercito di Putin, si ignora il bilancio delle vittime. Una malvagia nonnina ucraina estrae il mercurio dal termometro di casa e lo mette in una torta che offre ai nemici affamati; otto militari morti e diversi intossicati. Grazie alla guerra russo-ucraino/statunitense l’informazione del XXI secolo ha fatto outing, rivelando la sua natura fiabesca.

Ma quando la cronaca diventa fiaba, che fine fanno le vere fiabe?

La mentalità globalista del «tutto è permesso» sta cercando di togliersele dai piedi coadiuvata da una pletora di sedicenti esperti che valuta negativamente gran parte dei classici racconti per bambini. Sarebbero troppi, secondo questi soloni, gli stereotipi legati a personaggi femminili «non indipendenti». Le mamme sono quasi sempre in cucina, le nonne fanno la calza e le bambine giocano con le bambole, mentre il maschio continua ad essere la figura famigliare di riferimento.

In realtà la tentazione di «intervenire» sulle fiabe non è nuova. Nell’ordine ci avevano già provato la cultura cattolica, censurandone ed epurandone un buon numero, e l’Illuminismo, che le declassò a racconti per l’infanzia. Alla fine della Seconda guerra mondiale il pedagogista francese Brauner, in rappresentanza di un gruppo di pedagogisti progressisti dell’epoca, arrivò a proporre l’esclusione della letteratura per l’infanzia dai libri di scuola per gli intrinseci motivi di sadismo riscontrati in certi aspetti feroci e lividi presenti nei testi. L’ala tedesca della nuova corrente si spinse addirittura ad ipotizzare perverse connessioni fra la stufa a legna della strega di Hänsel e Gretel e i forni crematori …

Successivamente la mannaia moralista è calata su Pinocchio, che una teutonica scrittrice sessantottina pretendeva di «ripulire» della perfidia di cui Collodi aveva intriso il testo. Peccato che quella signora tanto perbene non avesse considerato che il bambino, salvo patologie particolari, non è uno stupido. Non si spaventa se il burattino resta impiccato a un albero perché in cuor suo sa che poi dall’albero lo tireranno giù. Il bambino ha fiducia nella giustizia e nel bene, capisce intimamente il valore inestimabile di quella «prova iniziatica» (figlia spirituale delle nove notti di Odino appeso a Yggdrasill) e avverte la sensazione, anche se non ne ha esperienza, che crudeltà e paura siano componenti essenziali dell’umano, categoria biologica a cui anche lui/lei appartiene.

A conti fatti sono meno subdole le fiabe classiche che «facevano paura» di quelle moderne che «fanno cronaca» e come qualsiasi altra forma di comunicazione vengono manovrate a piacimento. Prendiamo ad esempio Barbablù, spacciato per femminicida perché considerarlo un uomo qualunque equivarrebbe ad ammettere che certi istinti esistono nel cuore di tutti gli esseri umani. Ma perché nascondere al bambino l’esistenza del Male insieme al Bene, facendolo crescere incapace di distinguerli? Se esistono gli Orchi, esiste anche il luminoso reame degli Elfi. Proprio nella personificazione favolosa del negativo il piccolo ha la possibilità di «prendere le misure» della vita, vede che altri bambini si spaventano davanti alla stessa cosa e capisce di non essere il solo ad avere fantasie ansiose e distruttive.

Chiaramente attenzioni e premure non sono riconducibili alla bontà e all’altruismo delle istituzioni bensì all’intento manipolatorio dell’ideologia globalista, che appropriandosi di uno strumento altamente educativo come la fiaba spera di formare i futuri adulti. Altrimenti non si capisce come possano conciliarsi il divieto di parlare del Lupo Cattivo e il permesso di navigare liberamente in internet dove i lupi, quelli veri, sono davvero a caccia di bambini. O come si possano tollerare «svaghi» quali la visita al museo di Berlino dedicato a Barbie (copia fedele di quello americano) in cui la casetta tutta rosa a grandezza umana ha i connotati di un bordello thailandese mentre il povero Ken, messo lì dentro come un soprammobile, interpreta la parte del maschio deficiente.

L’ordine naturale delle cose non piace al totalitarismo, che mal sopporta anche il «moderno intelligente». Fanno prurito al naso questioni come quella sollevata da Il Piccolo Principe che chiede a un mercante di pillole destinate a dissetare perché venda quella roba. La risposta è in perfetto stile mercantilista: si tratta di un’oculata gestione del tempo, non dovendo più bere chi cammina può risparmiare fino a cinquantatré minuti la settimana. Ribatte l’arguto principino: “Io, se avessi cinquantatré minuti da spendere, camminerei adagio adagio verso una fontana.
Grazie a queste semplici parole di buon senso il piccolo sovrano è stato accusato di antimodernismo. Sua maestà è uno snob passatista, ignora che i tempi moderni obbligano a correre a perdifiato e capita spesso di passare accanto a una fontana senza neppure riconoscerla. E poi, che bisogno c’è dell’acqua quando ci sono le pillole?

Le grandi purghe riguardano anche i cartoni animati «storici», quasi tutti in fase di rifacimento perché la Cupola di potere desidera mettere le cose in chiaro fin dalla prima infanzia. Bocciato il Re Leone «fascista» che introdurrebbe il bambino in una società dove i deboli imparano a venerare i più forti. La Sirenetta è diventata afroamericana. Sempre con la scusa del remake in live-action stanno per essere rettificati: “Lilli e il vagabondo” (i cuochi italiani sono stereotipi culturali), “La spada nella roccia” (inneggia alla predestinazione, invece siamo tutti uguali), “Peter Pan” (pericolosa sopravvalutazione della fantasia), “Il gobbo di Notre Dame” (sottolinea l’handicap del campanaro).

Interpretando il dimesso gruppo di corvi canterini come una parodia dei neri d’America è finito all’indice persino Dumbo, il dolce elefantino volante creato nel 1941 dalla Disney, la cui proposta commerciale attualmente è orientata alla costruzione di un baby-mondo distopico costellato di paletti morali e di protagonisti Lgbtq+.
Un mondo sgradito alle culture più tradizionali, come ad esempio quella russa, che disapprovando le «novità per bambini» comprese nell’indottrinamento gender ha eleminato in fase di doppiaggio ogni riferimento alla fidanzata lesbica dell’agente Specter, protagonista del film Onward, oltre la magia, parlando invece di un generico «partner». L’Europa, zitta e muta.

Inutile dire che non c’è incantamento né poesia nelle odierne pellicole rivedute e corrette. Sarebbe stato meglio lasciare i vecchi cartoon come stavano invece di stravolgerli con la scusa di trasferirli in versione digitale; tanto più che la maestria di caratteristi, coloristi e disegnatori di allora era nettamente superiore all’ordinarietà di oggi. Una volta dietro la scrivania c’erano gli artisti, adesso ci sono gli informatici, i cui padroni sono i Signori della Silicon Valley che hanno una raccapricciante idea di futuro e sognano una rivoluzione digitale dove non c’è posto per i bambini fantasiosi che potrebbero diventare adulti in grado di usare il pensiero analogico.

Non sia mai che i piccoli (ma neanche i grandi) s’interroghino su temi fondamentali quali ad esempio l’infedeltà della comunicazione, come suggeriva il geniale Lewis Carroll in Alice nel paese delle meraviglie (1865) attraverso il pungente dialogo tra la protagonista e Humpty Dumpty, un goffo personaggio a forma di uovo. Alice non capisce cosa intenda quella strana creatura dicendo: “Quando io mi servo di una parola, quella parola significa quello che piace a me, né più né meno.”
Attraverso una lezione di potere come solo la leggerezza della fiaba può rendere digeribile, la bambina apprende una delle regole basilari del cosiddetto «vivere civile»: le parole sono al servizio di chi le usa e possono avere tanti significati quanti noi siamo capaci di darne. “Quando faccio fare a una parola un simile lavoro (…), la pago sempre di più”, dice Humpty Dumpty, preannunciando il destino del giornalettismo odierno.

In un crescendo di aggressività senza precedenti l’informazione armata del XXI secolo dimostra tuttavia di non conoscere l’animo umano, la cui indole «disobbediente» era già nota ai tempi del Paradiso Terrestre. Per averla vinta non basta screditare il pensiero disallineato con accuse di negazionismo, complottismo, no-vaxismo, terrapiattismo, filoputinismo e via dicendo. La «prepotenza narrativa» con cui il mondo mediatico cerca di sostituirsi al mondo reale non potrà mai vincere il «vigore narrativo» di un racconto contestualizzato, il cui vissuto può diventare la pietra angolare di una determinata visione, forgiare l’orizzonte di riferimento della platea a cui è diretto, mutare la prospettiva collettiva fondando l’immagine corrente di ogni cosa.

Vittima dell’idea ottocentesca che pensava di riassumere il sapere in un’enciclopedia e di riassorbire ogni alterità e ogni pluralismo in un’unica cultura, la nostra, la narrazione occidentale sottovaluta la ricchezza che sta nella capacità di decentrarsi, contemplando punti di vista differenti. Per questo motivo le «fiabe» che inventa suscitano ilarità anziché azioni rispettabili come il pensare, il sentire, il volere. Come diceva Abramo Lincoln: “Si possono ingannare poche persone per molto tempo, o molte persone per poco tempo. Ma non si possono ingannare molte persone per troppo tempo.” Dopo di che, fu assassinato.

Recentemente il direttore della CIA, Bill Burns, ha dichiarato trionfante davanti al Senato degli Stati Uniti che “la Russia sta perdendo la guerra dell’informazione sull’Ucraina”. Ingenuamente la cosiddetta «civiltà dell’immagine» pensa di poterla avere vinta proponendo la solita serie di nature morte che all’anima, come al corpo, offrono solo cibo riciclato. Spinge verso il mono-discorso di matrice liberal e invece finisce nei meme satirici degli umoristi, com’è puntualmente accaduto per le api patriote e la torta al mercurio della nonnina ucraina. Ciò significa che nelle belle democrazie occidentali chiunque è «libero» di esprimersi come vuole? Se anche fosse vero, per dire cosa? Quali argomenti degni di nota possono nascere in uno stato avanzato di putrefazione culturale? Quante novità possono uscire dal fondo di un abisso spirituale?

Le creazioni umane capaci di proiettarsi nell’avvenire sono quelle dotate di radici profonde e ramificate saldamente piantate nel terreno delle proprie tradizioni, e francamente non si comprende su quale vissuto possano contare la Sirenetta afroamericana, il Re Leone antifascista, il Dumbo antirazzista, la vecchietta sterminatrice di forze armate e il perfido «drago russo», il quale, oltre ad avere l’alito puzzolente come gran parte dei draghi delle fiabe classiche, a differenza di essi risulta essere un perfetto idiota che bombarda le stazioni ferroviarie del nemico con missili recanti la scritta “per i bambini” al fine di aggiudicarsi la palma di Mostro dell’Anno.

Quando la cultura industriale basata sulla crescita esponenziale esploderà per eccessivo aumento di peso, poiché nessun organismo può crescere indefinitamente, delle «palle» del Barone di Münchhausen non si vedrà neppure l’ombra. E allora i veri narratori potranno rientrare in scena, catturando di nuovo l’attenzione del pubblico con le loro capacità istrioniche, come hanno sempre fatto. Le tele narrative della propaganda sono appiccicose, insistenti, noiose, ma durano poco come i «giochini» elettronici usa e getta, o le serie televisive di successo che si dimenticano l’anno successivo per fare posto a qualcos’altro. Lo smercio e la commercializzazione di ogni realtà hanno svuotato di significato qualsiasi racconto livellato a misura della società unidimensionale e il gioco allo sbando da essi proposto non è eterno. Basta avere pazienza.

Rita Remagnino

SEGUICI SU TELEGRAM

EreticaMente/Illustrazione di copertina: Andrea Ucini

Lascia una risposta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *