Società

Coltivare la non-finzione

Un paio di millenni fa, una Donna disse «Ciò che chiamiamo vita, è questo sogno fatto dalla nostra anima quando ogni mattino si sveglia in un corpo di carne ed ossa; non dimentichiamolo mai.»[1] Questo sogno immenso possiamo paragonarlo anche ad un teatro: ci sono alcuni che mettono in scena una storia che è in realtà una finzione, non è la “realtà”, davanti ad altri che assistono, ammettendo come vero per un certo periodo di tempo che quella finzione inscenata sia la “realtà”. Il teatro coinvolge tutto l’essere, lo trasporta empaticamente e catarticamente in una dimensione tutta sua, quella della cosiddetta magia teatrale, che è ciò che fa amare tanto il teatro perché ci rende consapevolmente creatori di una “realtà”. Quanto, per, ciò che noi crediamo essere la “realtà” reale, è veramente tale?

Senza pretesa di alcuna esaustività sull’argomento, per il quale non basterebbe un’intera vita di ricerca e descrizioni, possiamo cogliere alcune intuizioni pensando alla nostra vita attuale, a ciò che ci sta succedendo in questi mesi di battaglie aspre e complicate. Siamo in una fase di trasmutazione tale da farci talvolta perdere la bussola, mentre avanza il timore di rimanere intrappolati in un qualcosa più grande di noi, che sfugge dalla nostra mania di controllo e comprensione delle cose. Sentirsi spaesati, afflitti e talvolta anche prossimi alla disperazione è umanamente normale.

Fermiamoci, però, a pensare per un attimo: è reale ciò che stiamo vivendo? Proviamo a prendere in considerazione la nostra vita, gli eventi in tutto il mondo, come se fossero uno spettacolo teatrale: tutti i partecipanti sono lì dove devono essere, recitano la loro parte, c’è chi fa il buono e chi il cattivo, ci sono i costumi, le lingue, i simboli, i colori, le forme, un ambiente ben predisposto, ogni dettaglio curato con attenzione; persino le emozioni da suscitare negli spettatori sono parte integrante del copione. La cosa buffa è che anche noi siamo parte della finzione teatrale, ne siamo addirittura i registi, che però si scelgono una parte nell’operetta, un po’ come spesso succede ai grandi registi che si nascondono fra le comparse dei loro capolavori.

Considerando tutto da questo punto di vista, che cosa possiamo trarne? Che ogni cosa ha una sua perfezione, tutto concorre al bene, alla riuscita dello spettacolo e al successo degli attori. Quanti hanno esperienza teatrale sanno bene che il successo è una questione di compagnia, non è individuale, perché senza anche solo uno dei partecipanti, dagli attori fino ai tecnici, partecipa in maniera determinante alla messa in scena.

Da questa considerazione più metafisica, proviamo ora a scendere verso una più politica, per così dire. Guardiamo al teatrino della politica: un’ampia schiera di teatranti che recitano la loro parte, con colpi di scena, cambi di ruolo, monologhi e sovrapposizioni, tutto ben architettato per riuscire nel successo del copione. Noi stiamo ad assistere, ridiamo e scherziamo, ci arrabbiamo e infervoriamo, trasportati dall’emozione suscitata appositamente per il pubblico. E va bene così, a tutti va bene così. È teatro. Gli antichi greci lo sapevano bene e attraverso il teatro raccontavano il mondo in maniera pedagogica, per insegnare al popolo il significato delle cose e degli eventi dell’esistenza.

In un mondo di finzione e montature, che fare per uscire dall’illusione? Coltivare la non-finzione, ossia la verità del cuore. Sforzarsi di considerare tutto quello che si vive non come sottomesso ad una tragica dittature della dualità giusto/sbagliato, buono/cattivo, bianco/nero, bensì accogliere i colori della vita, guardare con gli occhi di un ordine superiore ad ogni cosa che manifesta la sua perfezione costantemente, cogliere dalla Provvidenza del Regista la lezione che ci viene offerta fra le righe delle sceneggiature. Per non rischiare di rimanere intrappolati nello spettacolo teatrale, bisogna non prendere troppo sul serio nessun personaggio col suo ruolo, sorridendo con ironia a noi stessi e al mondo. L’ironia, che in greco significa “dissimulazione”, ci permette di superare il paradosso della “realtà” per entrare nell’essenza profonda, per comprendere con il cuore. La non-finzione, allora, si manifesta come vita autentica, come scelta costante di andare oltre la simulazione della “realtà” e percepire “per davvero” la vita.

Nel lamentarci di come vanno le cose, smettiamola di lamentarci e diamoci da fare per cambiare le cose che, come scritto, significa cambiare noi stessi, il nostro sentire, il nostro sguardo rivolto verso il palco. È a quel punto che con un’intuizione ci accorgeremo che tutti i teatranti sono eccellenti attori, il copione è riuscito, il palco era montato ad arte e che, in fin dei conti, non siamo poi così lontano dall’applauso che chiude uno spettacolo e ci apre ad un nuovo inizio.

Lorenzo Maria Pacini

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Note:

[1] D. Meurois, Il testamento delle tre Marie, Edizioni Amrita, Torino 2011, p. 71.

Idee&Azione / Illustrazione di copertina: Joey Guidone

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