Cultura,  Politica,  Società

Come andrà a finire?

Che cos’è un uomo saggio?”, 

chiese qualcuno.

“Uno che guarda da lontano le cose vicine e da vicino le cose lontane”, 

disse Joshu.

(Masini F., Pensare il Buddha, Castelvecchi, Roma, 2013)

Introduzione

Resto convinto – seppur non sicuro – che un buon pensiero si lasci esprimere da poche parole. Perciò mi scuso sin d’ora con il Lettore: le lungaggini che mi sono concesso con questo articolo non fanno ben presagire. Proverò comunque a delineare una possibile chiave di lettura della fase che stiamo attraversando, e a proporre una strategia per superarla senza farci troppo del male. L’obiettivo è quello di tentare una ricomposizione della frattura sociale che si va divaricando e inabissando ogni giorno di più. Non certo quella tra destra e sinistra, categorie ormai sepolte sotto decenni di metamorfosi antropologiche, né principalmente quella tra “pro-vax” e “no-vax”, che ne rappresenta solo la più recente crepa periferica. L’intento è quello di promuovere un dialogo tra chi, nonostante tutto, continua a vedere la salvezza nei modi indicati da un paradigma che ha fatto il suo tempo ma non intende farsi da parte, e chi, invece, comincia seriamente a pensare che sia il caso di provare a cambiare prospettiva. Questa, a parere di chi scrive, è la reale polarizzazione che l’attuale “spirito del tempo” assegna allo spettro politico.       

La storia insegna?

Fare previsioni è impresa difficile e delicata. In particolar modo quando riguardano l’evoluzione della società contemporanea, un sistema la cui complessità mi pare difficilmente sopravvalutabile. Occorrerebbe un modello previsionale all’altezza della situazione, ma dubito che ve ne sia qualcuno. Non a nostra disposizione, perlomeno. La cosa più ragionevole, allora, sarebbe quella di gettare la spugna e rassegnarci al “chi vivrà vedrà”. In alternativa, ci si potrebbe accontentare di un modello molto più povero della realtà che dovrebbe modellare. Naturalmente, ciò espone al rischio che le previsioni fornite dal modello risultino errate e, dunque, fuorvianti. Fatta questa necessaria premessa, nel presente scritto proverò ad azzardare qualche previsione prendendo a modello la società medievale. Mi rendo conto che la proposta è quantomeno singolare, per non dire altro. Perciò mi corre il dovere di provare a motivarla immediatamente.

Si dice che “la storia tende a ripetersi”. Proprio per questo, suppongo, si ritiene che la storia possa aiutarci non solo a comprendere il presente, ma anche a non ripetere gli errori commessi nel passato. Infatti, se il processo storico fosse completamente aperiodico, la conoscenza delle sue fasi passate tornerebbe sì ancora utile a comprenderne la fase presente, ma non più a scongiurare gli errori che la stessa potrebbe riservarci, perché in tal caso non avrebbe alcun senso confrontare la contingenza attuale con circostanze pregresse. Assumerò dunque che “la storia tende a ripetersi”, ma terrò ben presente che “non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume”. In altri termini, assumerò che le dinamiche socialmente dominanti si ripresentino, pur con qualche variazione sul tema, in contestistorici anche piuttosto differenti. 

L’analogia storica non è un isomorfismo: spingerla oltre i limiti entro i quali può avere un valore conoscitivo/euristico, vuol dire esporsi al rischio di trarne insegnamenti aberranti. Ma è proprio dove l’analogia comincia a vacillare che c’è più da imparare. Del resto, le cose funzionano così anche nella scienza. In un certo senso, lo scienziato è simile a un cartografo: è proprio nelle regioni in cui la sua “mappa” non riesce più a rappresentare il “territorio” che si annidano, ad attenderlo, le scoperte più importanti. La rivoluzione scientifica avvenuta un secolo fa, con l’avvento delle teorie relativistiche e quantistiche, ne è forse la prova più evidente. La polemica sulle analogie storiche avanzate ai tempi del virus mi pare sterile proprio per questa ragione: le (innegabili) differenze storiche non sono state valorizzate nel senso appena chiarito, ma strumentalizzate al fine di stroncare ogni intento analogico. Inutile dire che, negare il valore dell’analogia storica, significa precludersi la possibilità di imparare qualcosa dalla storia. 

Questa nuova forma di oscurantismo mi suggerisce di cominciare con l’elencare, almeno in maniera sommaria e semplificata, alcune caratteristiche che la nostra società presentava nel medioevo e che, fatte salve le dovute differenze cui proverò ad accennare, mi pare manifesti anche in questi “strani giorni” (così li definiva il compianto F. Battiato ben prima del 2020). Per il Lettore che avesse poco tempo ho evidenziato in neretto i passaggi essenziali e le parole chiave.

1. Nel medioevo c’era un nemico invisibile dal quale ci si doveva salvare ad ogni costo, e c’è anche oggiChe dal nostro punto di vista il diavolo sia stato o meno convocato ad hoc, e da chi, in questa sede ha poca importanza: presumo che per l’uomo medioevale la sua presenza non sia stata meno reale del virus che ci sta dannando anima e corpo. Noi abbiamo i microscopi elettronici, che vedono il virus ma non il diavolo. Loro avevano gli esorcisti, che vedevano il diavolo ma non i virus. Noi, di loro, pensiamo che morivano di epidemie ma loro, di noi, penserebbero che siamo posseduti da un demone – di cui mi occuperò più avanti – che ci sta mandando dritti all’inferno. Per certi versi abbiamo ragione entrambi. Per altri, abbiamo torto tutti quanti. Noi ridiamo di quei medievali che interpretavano la peste come una punizione divina. Forse anche i posteri – posto che ve ne sarà qualcuno – troveranno risibile la nostra visione della pandemia in corso. Naturalmente, la faccenda non è così semplice: sul parallelismo demonio-virus andrebbero dette molte altre cose. Le tralascio solo per non abusare della rivista che ospita i miei pensieri, ma la colpa delle omissioni resta tutta e solo mia.

2. Nel medioevo c’era una casta che pretendeva di indicare a tutti la via della salvezza. La stessa pretesa viene oggi avanzata dalla casta neoliberista, e non ha iniziato a farlo nel 2020. L’equazione in base alla quale una torta più grande garantisce fette più grosse per tutti, ci è stata data in pasto da tempo. Si tratta, evidentemente, di un’equazione priva di senso, perché la torta terrestre è quella che è. Le uniche cose che stanno aumentando sono il numero di invitati e la dimensione delle fette che, giustamente, anche loro reclamano. Stando così le cose, non è difficile prevedere che, tra non molto, la “festa” degenererà in una rissa generale.

Come è noto, prima ancora che l’eclisse medievale oscurasse il sole, qualcuno scacciò i mercanti dal tempio. Oggi sono tornati con i rinforzi, e ne hanno preso pieno possesso. Basti pensare a chi è salito e rimasto in sella, negli ultimi dieci anni, nel rodeo governativo italiano, e in virtù di quali acrobazie è riuscito nell’impresa.

La via della salvezza indicata dalla casta neoliberista ha recentemente assunto la connotazione sanitaria che, già nel 1976, dunque in tempi non sospetti, Ivan Illich aveva descritto in un suo testo intitolato “Nemesi tecno-medica”: “L’homo sapiens, che si destò al mito della tribù e crebbe alla politica come cittadino, viene ora addestrato a essere un detenuto a vita di un mondo industriale. La medicalizzazione porta all’estremo il carattere imperialista della società industriale”. Sulla scia dello storico e filosofo austriaco, lo scorso anno G. Agamben faceva notare che “Il virus Sars-CoV-2, nelle sue diverse e mutanti forme che stanno circolando, sia che esso abbia un’origine incidentale o naturale, ci sembra piuttosto un prodotto/evento (atteso, voluto o provocato poco importa) gestito dalle oligarchie digitali, farmaceutiche e biotecnologiche transnazionali al fine di poter ridefinire assetti geopolitici e forme di governamentalità”. 

3. Nel medioevo c’era una schiera di predicatori che, con le loro funzioni, si faceva portavoce del messaggio di salvezza rivelato alla (o dalla) casta, che ne era la sola e unica depositaria. Le celebrazioni odierne si svolgono “h 24” non solo direttamente a domicilio ma, per i più devoti, dovunque si trovino, basta che ci sia campo. Naturalmente, nel millennio le tecniche comunicative e persuasive hanno fatto passi da gigante: come è noto, meno di un secolo fa uno dei popoli più colti del suo tempo è stato manipolato al punto tale da convincerlo ad eliminare una parte importante di sé stesso.

Grunewald, Berlino, 1933. Così riferiva M. Planck, padre spirituale della meccanica quantistica, a W. Heisenberg, il suo padre formale. “Lei è venuto a chiedermi consiglio su una faccenda politica – cominciò senza tanti preamboli – ma temo di non essere più in grado di consigliarla. Non c’è speranza di fermare la catastrofe che si sta per abbattere sulle nostre università e su tutta la Germania. Prima che mi parli di quanto avviene a Lipsia – e, mi creda, le cose non potranno andar peggio di ciò che succede a Berlino – voglio dirle che ho parlato con Hitler qualche giorno fa. Speravo di convincerlo che espellere i nostri colleghi ebrei comporta un danno gravissimo per le università tedesche, e per le ricerche di fisica in particolare; volevo fargli capire che è assurdo e immorale perseguitare uomini che si sono sempre ritenuti tedeschi e che hanno offerto la vita per la Germania come chiunque altro. Non ci sono riuscito, forse perché non vi è linguaggio con cui si possa parlare a costoro. Hitler ha perso ogni contatto con la realtà. Ciò che dicono gli altri costituisce solo una sgradevole interruzione che egli si affretta a cancellare ripetendo senza sosta i vecchi slogan sul decadimento della vita intellettuale nel dopoguerra, sulla necessità di fermare il marcio prima che sia troppo tardi eccetera. Si ha l’impressione che egli creda davvero a tutte le assurdità che dice, e che si culli nell’illusione ignorando ogni influenza esterna. Insomma, è posseduto a tal punto dalle sue pseudo idee che nessuno può più discutere con lui. E un uomo in queste condizioni non può che portare la Germania al disastro”.

In quegli anni il lavaggio del cervello è riuscito con mezzi che, rispetto a quelli odierni, debbono annoverarsi come reperti archeologici (radio, cinema, piazze e parate). G. Hegel sosteneva che la variazione quantitativa di un fenomeno può risolversi in una variazione qualitativa dello stesso. La tragica e terribile conferma empirica della famosa congettura di P. J. Goebbels, “una menzogna ripetuta mille volte diventa una verità”, ne è forse la prova più evidente. Se chi legge, sulla base di quest’ultima considerazione, ha già deciso che chi scrive è un “negazionista”, allora devo essermi espresso male.

4. Nel medioevo c’era una maggioranza di fedeli che interiorizzava, in maniera più o meno acritica, il messaggio di salvezza diffuso dai predicatori. Oggi il messaggio di salvezza viene trasmesso a reti unificate. Certo, non si tratta più della salvezza ultraterrena promessa dalla religione, perché “Dio è morto”, ma di quella terrena garantita dal liberismo economico e tecno-scientifico che ne ha preso il posto. Va rilevato che il “monologo collettivo” imbandito dai nuovi predicatori, e la “comunicazione tautologica” in cui sono scivolati, ha conferito a tutta la faccenda sanitaria una versione puramente terrena della dimensione escatologica.Ilclima di incertezza che sempre accompagna l’impresa scientifica – specie quando lo si vuole mitigare ostentando la sicurezza tipica dell’invasato, e imbavagliando accuratamente la prudenza tipica dello scienziato – ha fornito l’altra condizione necessaria affinché la popolazione possa autenticamente impegnarsi in un genuino atto di fede. A scanso di equivoci tengo a precisare subito una cosa: proprio perché non sono credente, porto il massimo rispetto per chi professa una fede. Chiedo solo che le cose vengano chiamate con il proprio nome, tutto qui: mi spaventa chi vuole far passare un atto di fede per un atto dovuto perché, se ci riesce, le cose riprendono a rotolare lungo un “pericoloso piano inclinato”. Ma questa è una faccenda che tratterò nel prossimo punto.

5. Nel medioevo gli infedeli venivano, a vario titolo e in vari modi, perseguitati dalla casta. Oggi la persecuzione degli infedeli non prevede più la caccia alle streghe e agli eretici, anche se qualcuno ha già avvertito la necessità di “stanarli tutti”. “La banalità del male” è sempre in agguato: chi meglio di un militare, persuaso com’è che gli ordini vanno eseguiti senza discuterli, può riuscire in questo intento? Un Generale al quale, un Governo del tutto estraneo alla volontà popolare espressa nell’ultima tornata elettorale, ha affidato il comando di certe operazioni. La cosa mi ricorda, neanche troppo vagamente, certe tragedie sudamericane del passato prossimo. “Da un cielo grigio di piombo piovevano lacrime di rame. Il Cile piangeva disperato la sua libertà perduta.” cantava Augusto Daolio pensando a Salvador Allende. 

Oggi non c’è più bisogno del tribunale dell’inquisizione perché, a quanto pare, alcuni giudici impegnati nei tribunali ordinari hanno già cominciato a condannare gli infedeli. Né è più necessario accendere roghi per arderli vivi, troppo inquinante e impopolare: meglio un approccio più “green”, come tentare di convertirli prefigurando loro una sorta di “morte per asfissia”, cioè minacciandoli di perdere il lavoro e le relazioni sociali. Infine, non è più necessario partire per le crociate, perché la parola del paradigma neoliberista si appresta a diventare il credo ufficiale della comunità globale: è ormai questione di poco tempo, e di poche energie. Resta solo da convertire i pochi selvaggi che, non avendo ancora visto la luce del paradigma “no limits”, perseverano nel peccato proprio perché sono rimasti all’oscuro. Allora, e solo allora, i tempi saranno davvero maturi.

6. Nel medioevo la predica veniva dallo stesso pulpito di coloro che torturavano a lungo le streghe e gli eretici, prima di bruciarli vivi. Oggi la predica, nella versione sanitaria che ha recentemente assunto – quella che vede nel sacramento della vaccinazione la forma più alta del rispetto reciproco – viene dagli stessi che hanno convocato il demone. Se non proprio in laboratorio – l’origine del virus è a tutt’oggi oggetto di indagine – l’hanno creato nel senso che hanno posto le condizioni necessarie e sufficienti alla sua “libera circolazione” e alla sua “libera concorrenza”. In effetti, il dogma della globalizzazione, uno dei capisaldi del credo neoliberista, ha reso immediatamente globale un problema altrimenti locale, mentre il dogma della privatizzazione, un’altra colonna portante del paradigma “no limits”, ha smantellato un sistema sanitario pubblico in grado di incassare certi colpi bassi senza collassare. Ancora: la via della salvezza viene oggi rivelata dagli stessi che hanno esasperato la corruzione istituzionale, le disuguaglianze sociali, la dissipazione delle risorse naturali e il conseguente accumulo di rifiuti. Per fare un caso concreto trasversale a tutte queste problematiche, alle quali aggiunge “solo” la piaga della disoccupazione, Serge Latouche ci fa notare che “un posto di lavoro precario creato nella grande distribuzione distrugge cinque posti di lavoro stabili nel commercio di prossimità”. Questo è un dato del 2006. Qualche mese fa, fuori dal tabacchino, la locandina di un predicatore locale riportava la lieta novella: “Amazon sbarca a Trento. Settanta nuove assunzioni”. Se nel 2006 la tendenziosità del messaggio poteva ridursi aggiungendo al testo della locandina “Trecentocinquanta nuovi esuberi”, nel frattempo l’efficientismo acefalo del cosiddetto “e-commerce” è lievitato grazie al dogma della digitalizzazione – il terzo pilastro della trinità neoliberista – e alle nuove forme di schiavismo poste in essere da filantropi e benefattori. Temo pertanto che, oggi, il fattore di conversione dei posti precari creati in posti stabili distrutti (dal commercio elettronico) ecceda largamente il numero cinque. Questo per fare solo un esempio, tra i tanti possibili, che mostra chiaramente come il messaggio di salvezza odierno provenga dallo stesso pulpito che ha aperto le porte alla rovina di milioni di lavoratori autonomi, e alla perdita del connesso tessuto sociale, stracciando di fatto quel “contratto” che prevede la cessione di una quota di sovranità individuale in cambio della difesa dalla legge del più forte. Sebbene il contratto sociale sia ormai evidentemente nullo, gli oneri di questa cessione restano tutti a carico nostro – fedeli o infedeli in questo caso non fa molta differenza – mentre gli onori rimangono beneficio esclusivo della casta. Mi chiedo come una persona ragionevole possa pensare di salvarsi affidandosi alle stesse persone che lo stanno mettendo sulla strada, se non l’hanno già fatto. Un po’ come pensare di scamparla affidandosi al boia. Certo, le politiche sanitarie vanno distinte da quelle economiche. Ma se qualcuno, mentre mi porge un salvagente con la mano sinistra, mi vuole affogare con la destra, la distinzione risulta a di poco oziosa. “La gente era in prigione perché i prezzi potessero essere liberi” scriveva Eduardo Galeano ai tempi del Cile di Pinochet. La storia tende a ripetersi.           

7. Nel medioevo gli infedeli venivano additati, segnalati e ghettizzati anche da quei fedeli che, con la loro preziosa e scrupolosa collaborazione (o collaborazionismo, a seconda dei punti di vista) non perdevano occasione per provare ad entrare nelle grazie della casta. Rimane inalterato il fatto che la “servitù volontaria” è la primaria fonte di legittimazione della casta. Questo genere di “docile sudditanza” è sopravvissuto ai secoli come poche altre cose hanno saputo fare, ma ha perso il ruolo strategico che aveva ai tempi dell’inquisizione. La casta del ventunesimo secolo non compra confessionali in legno scuro. Troppo costosi, lenti e ingombranti. Ha proposto a noi di comprare quelli al silicio: prezzo popolare, velocissimi e tascabili.  E noi li abbiamo comprati, li abbiamo pagati di tasca nostra, questo va detto a chiare lettere, perché un minimo di autocritica non guasta. Per quanto riguarda i confessori del nostro tempo, meglio noti come algoritmi, mi viene in mente la scena del film “Ocean’s eleven – Fate il vostro gioco” in cui il proprietario del casinò (A. Garcia) ricorda al ladro (G. Clooney), il quale vuole portargli via la moglie (J. Roberts) ancor prima dei soldi, che “nelle stanze del mio albergo c’è sempre qualcuno che ascolta”.  

La struttura sommariamente delineata nei punti elencati ha consentito alla casta medioevale di esercitare un potere pressoché assoluto per diversi secoli, cioè di imporre – a fin di bene, s’intende – direttive, controlli e sanzioni senza incontrare resistenze significative per un arco temporale di tutto rispetto. Ora, le corrispondenze sopra elencate sembrano suggerire che la dinamica socialmente dominante del nostro tempo è – per certi versi – similea quella medioevale. Naturalmente, ciò non significa che le cose andranno nello stesso modo. Se da un lato il virus ha riesumato una matrice simil-medievale, dall’altro ci stiamo bagnando in un fiume affatto differente. Conviene dunque, prima di trarre qualsiasi conclusione, esaminare alcune divergenze cruciali che non abbiamo ancora considerato, e che potrebbero fare una differenza sufficiente a rendere inservibile il “modello medievale” (per ragioni di brevità lascerò al lettore l’incombenza di valutare similitudini e differenze tra la società feudale e quella neoliberista). Lo farò ponendo qualche domanda e proponendo la mia risposta.

Che cos’è la scienza?

“L’uomo non ha mai abitato il mondo, ma sempre e solo la sua rappresentazione” (U. Galimberti). La scienza, per come la vedo io, è un modo di rappresentare il mondo che segue certi criteri. Uno di questi è quello di falsificabilità, introdotto da K. Popper nel secolo scorso.

Non sono uno scienziato. Cionondimeno, mi permetto di riportare quello che ricordo come uno dei momenti più importanti della mia formazione scientifica. Nell’estate del 1998 mi trovavo al dipartimento di elettrochimica dell’Università di Padova. Il mio lavoro di tesi doveva contribuire a mettere a punto la reazione di elettrosintesi di un certo farmaco, un antinfiammatorio non steroideo. La sintesi di un farmaco, come di ogni altra sostanza chimica complessa, comporta di norma la formazione di sottoprodotti indesiderati, che possono essere dannosi e difficili da separare dal principio attivo. Ma l’elettrosintesi è più selettiva, nel senso che consente di ottenere principi attivi più puri. Dopo un anno di sperimentazione, era arrivato il giorno fatidico: se avevo lavorato bene, nella miscela di reazione non doveva essere presente un certo sottoprodotto indesiderato. Se invece c’era, le cose si mettevano male. Scesi nel seminterrato, dove si trovava il gascromatografo, lo strumento di analisi chimica che faceva al caso mio. Iniettai il campione, e attesi l’esito. Con l’entusiasmo dei vent’anni strappai il foglio dal rotolo della stampante dello strumento, feci i gradini delle scale tre alla volta e mi precipitai nel laboratorio, per mostrare il verdetto al ricercatore che seguiva il mio lavoro di tesi. “Non c’è, il sottoprodotto non c’è!”, esclamai stendendo il gascromatogramma sul bancone del laboratorio. Il ricercatore lanciò un’occhiata veloce al foglio, e mi guardò con aria severa per qualche interminabile secondo, senza proferire parola. Poi mi disse: “Non puoi dire che il sottoprodotto non c’è, puoi dire che il gascromatografo non l’ha rilevato”. Poi tornò al suo lavoro, mentre io rimasi li impalato a rimuginare la lezione. Li per lì, il suo mi sembrò un inutile puntiglio, una pedanteria che si era concesso solo per moderare il mio eccesso di entusiasmo. Mi ci volle un po’ per capire che aveva maledettamente ragione perché, tra la mia affermazione e la sua, passava una differenza capitale.        

Per come la vedo io, la scienza coltiva il dubbio, non la certezza. Si nutre di dissenso, non di compiacenza. Ciò non significa che lo scienziato passa le sue giornate a crogiolarsi nel dubbio e a dissentire dai colleghi, senza fare nient’altro. Vuol dire che uno scienziato, quando si rivolge all’uomo della strada, non può semplicemente riferirgli l’esito delle sue ricerche: deve anche fargli capire che il sapere scientifico non è mai certo, né definitivo, né esaustivo. Se manca questo passaggio, se i suoi limiti non vengono dichiarati, la scienza degenera in un culto della peggior specie. Non sarebbe onesto negare che la conoscenza scientifica è una delle poche su cui possiamo ragionevolmente contare, e che ci ha messo a disposizione strumenti meravigliosi. Ma sarebbe almeno altrettanto disonesto non riconoscere che l’impresa scientifica ha esposto l’intera umanità a rischi tanto concreti quanto incalcolabili. Quale dei due aspetti debba prevalere, se il bicchiere mezzo pieno o quello mezzo vuoto, suppongo dipenda dal sentire di ognuno. Vedo ottime ragioni, oggi, per rimanere fedeli all’impresa scientifica. Ma non me la sento di biasimare chi, essendo più sensibile a certi aspetti che ad altri, quella fede la sta perdendo. 

Evidentemente, la casta neoliberista vede le cose da una prospettiva che la rende meno tollerante. L’atteggiamento degli scienziati che ha recentemente arruolato, ha rivestito l’impresa scientifica con un manto di dubbio gusto religioso, fino a farne una sorta di religione di stato dalla quale non è consentito prendere le distanze. L’atteggiamento integralista della casta e dei suoi seguaci, e le recentissime forme di fondamentalismo a danno degli infedeli, esprimono senza possibilità d’errore la cifra pseudo-religiosa che i predicatori hanno assegnato all’impresa scientifica, la stessa che i fedeli hanno fatta propria accettando ed esibendo il marchio verde. La spaccatura sociale che si va allargando e approfondendo di giorno in giorno, riporta ai tempi del perbenismo di matrice religiosa. Le amicizie di lunga data che saltano come mortaretti, solo perché hanno incautamente acceso la miccia dell’argomento “vaccinazione” divenuto tabù, sono a ricordarci le difficoltà comunicative tipiche del dialogo tra credenti e non credenti. Per ora, dunque, sembrerebbe che il “modello medievale” continui a reggere: la gente era intrisa di religione allora e, in un certo senso, lo è ancor oggi. Nel dettaglio della loro differenza, però, temo si nasconda il diavolo (diabàllo, colui che divide). Anzi, il demone che ci possiede.     

Che cos’è il neoliberismo?

Se lo chiedete a un economista, probabilmente vi parlerà di libera circolazione dei capitali e delle merci, di libera concorrenza, di “laissez-faire”, di “deregulation”, di mercati che si autoregolano, del controllo statale come intralcio alla crescita, o cose del genere. L’idea che me ne sono fatto, forse errata, si lascia esprimere dalla seguente metafora. Per fornire potenza senza provocare disastri, un reattore a fissione nucleare ha bisogno delle barre di controllo. Se sono completamente inserite, il reattore è quasi spento. Di norma vengono estratte quanto basta a fornire la potenza richiesta dalla rete elettrica. Se vengono completamente rimosse, la potenza e la temperatura del reattore aumentano fino a quando il nocciolo si surriscalda e comincia a fondere, il ché rende vano ogni tentativo di reintrodurle: da quel momento in poi il reattore, libero da ogni vincolo esterno, si autoregola senz’altro: va spedito per la sua strada, una strada sulla quale non abbiamo più alcun controllo e nessuna possibilità di intervenire. A quel punto sono guai seri per tutti, non solo per il genio che ha estratto le barre ritenendole “inutili intralci” a quella “volontà di potenza” chiamata crescita: una potenza enorme viene rapidamente dissipata, creando molti più problemi di quanti poteva risolverne se le barre fossero rimaste al loro posto. La morale è suggerita da un vecchio slogan pubblicitario di una nota marca di pneumatici: riprende un’auto di grossa cilindrata che, in una notte di pioggia battente, frena bruscamente per non stirare l’animale che attraversa la strada. Tutto questo mentre la voce narrante ci ricorda che “la potenza è nulla, senza controllo”. Per come l’ho capito io, il neoliberismo rifiuta e rimuove il controllo della potenza, e con ciò spiana la strada al “nulla che avanza”.

Che cos’è la libera concorrenza se non la legge del più forte camuffata da regime economico-commerciale? E cosa presuppone la libera circolazione dei capitali e delle merci se non il rifiuto di ogni limite all’accumulazione della ricchezza monetaria (privata), e alla dissipazione delle risorse naturali (pubbliche) che la rende possibile? Se il grado di civiltà di una società venisse assegnato in base alla sua capacità di inibire la legge del più forte, la società neoliberista finirebbe senz’altro in fondo alla classifica, e i suoi membri guadagnerebbero meritatamente il titolo di ” barbari”. Non c’è alcun dubbio che, dalle leggi umane, sia possibile rimuovere le limitazioni all’orda barbarica: sta accadendo proprio sotto il nostro naso, e da parecchio tempo. Ma è altrettanto evidente che, dalle leggi naturali, non è possibile rimuovere i limiti che impongono al mondo fisico. Per questo chi pensa che un sistema limitato – qual è la Terra – possa sostenere e sopportare una crescita illimitata, non può che essere “un pazzo, oppure un economista”. Solo un “pazzo” può pensare di poter sfondare il muro di cemento armato dai limiti fisici del pianeta. Del resto, la competizione globale è una gara palesemente patologica: non prevedendo alcun traguardo, non può che concludersi per sfinimento psicofisico dei concorrenti, esaurimento delle riserve e disastro ambientale. Si tratta di una corsa demenziale proprio perché, mancando la linea d’arrivo, non può ammettere vincitori: può solo lasciarci tutti, vinti e stremati, in un deserto inospitale, privo di risorse e disseminato di rifiuti. Porsi un traguardo, tracciare una linea d’arrivo, darsi un limite, è il peccato capitale che nessun neoliberista può confessare. La cosa non è sfuggita a J. Hillman: “Ogni giorno, multinazionali e apparati statali senza volto prendono decisioni che sconvolgono intere collettività, rovinano centinaia di famiglie e distruggono la natura. Ci sono psicopatici che si accaparrano il favore delle folle e vincono le elezioni. Lo schermo del televisore, con la sua camaleontica versatilità nel mostrare qualsiasi cosa faccia audience, favorisce il distanziamento, l’indifferenza e il fascino di facciata, e altrettanto fanno i luccicanti e ben oliati meccanismi del successo propri della struttura politica, giuridica, religiosa e finanziaria. Chiunque salga in alto in un mondo che genera il successo dovrebbe riuscire sospetto, perché questa è l’età della psicopatia. Oggi lo psicopatico non si aggira furtivo come un topo di fogna nei vicoli bui, come nei film di gangster degli anni Trenta, ma sfila nelle macchine blindate durante le visite di Stato, amministra intere nazioni, invia rappresentanti alle Nazioni Unite.” 

Mi sono permesso questa breve digressione sul neoliberismo solo per mettere in evidenza una differenza cruciale tra la casta medievale e quella odierna. La prima razzolava piuttosto male ma, se non altro, predicava abbastanza bene. La seconda è perfettamente inquadrata dallo psicanalista statunitense appena citato, il ché rappresenta un grosso problema per tutti. Solo degli “psicopatici” potrebbero togliere le barre di controllo, pensando che la potenza del reattore possa continuare ad aumentare senza conseguenze catastrofiche. Eppure è esattamente ciò che stanno facendo (con la complicità del nostro silenzio).

Come andrà a finire?

Se le convergenze della nostra società con quella medievale mi danno da pensare, le divergenze mi preoccupano anche di più. I sacerdoti del XXI secolo non sono semplicemente degli “psicopatici che si accaparrano il favore delle folle e vincono le elezioni”: il nuovo vescovado dispone di mezzi e potenziali che il clero medievale manco poteva immaginare, se non nelle mani dell’Onnipotente. Questa differenza, da sola, è più che sufficiente a rendere completamente inattendibile il “modello medievale”. Infatti, in queste condizioni, non si può certo escludere una qualche forma di rinascimento, ma c’è la concretissima possibilità che lo scompiglio provocato dal virus inauguri una fase di oscurità come non se ne sono mai viste prima.

Il punto cruciale, il tavolo della partita che deciderà tra un’evoluzione in stile neo-rinascimentale e un’involuzione ancor più oscurantista, credo sia quello indicato G. Preterossi in un suo recente contributo a “La fionda” (Sovrano è chi discrimina i non vaccinati, 27 luglio 2021), e cioè la “crisi di legittimità e consenso che attanaglia l’Occidente, e in particolare l’Europa“. Aldilà degli orientamenti politici “insofferenti” che stanno emergendo, i movimenti no-global, no-tav, no-vax ed altri ancora, sono espressioni parapolitiche più o meno organizzate e credibili che hanno una sola cosa in comune: il “no” che sta davanti. Quello che viene dopo è del tutto secondario: esprime solamente le particolari declinazioni che la sensibilità di ognuno assegna al dissenso, ma sono tutte rivolte alla stessa visione del mondo. Si oppongono tutte a un paradigma che inscrive il destino del genere umano in un ossimoro del tutto inedito, nell’inaudita formula binomiale priva di senso che condensa l’intero psicodramma neoliberista: il suicidio involontario

Come un insegnante che, per via di una grave “psicopatia” sempre più evidente, ha perso l’autorevolezza necessaria ad indicare la strada e farsi seguire dagli studenti, la casta “no-limits”, per tenere la classe, non può che reagire in maniera autoritaria, minacciando sanzioni e sospensioni a destra e a manca. Ringhia e schiuma di rabbia come un cane ferito, il ché la rende imprevedibile e pericolosa. Il giro di vite innescato dalla spoletta sanitaria potrebbe rappresentare il colpo di coda che la belva, sanguinaria e sanguinante, assesta prima di accasciarsi. Come potrebbe invece nascondere la primissima schermaglia di un’aggressione di portata epocale. A onor del vero va considerata anche la possibilità che, stavolta, non la spunti né il rivoluzionario Galileo né il conservatore Bellarmino perché, per dipanarsi, entrambe le prospettive richiedono un tempo che forse non abbiamo più. Le barre di controllo sono già fuori gioco da un pezzo, e il reattore terrestre è surriscaldato dai più diversi punti di vista. Forse c’è ancora qualche possibilità di provare a reintrodurle prima che sia troppo tardi. Ma, per quanto l’intervento risulti ragionevole e indifferibile, occorre una proposta credibile, praticabile e unitaria capace di metterlo in atto. In assenza della quale, piaccia o meno, con la “lady di ferro” dobbiamo mestamente convenire che “there is no alternative”. Un tempo si sarebbe detto “Non avrai altro Dio all’infuori di me”.

La disobbedienza civile insorge quando un numero significativo di cittadini si convince che i canali consueti del cambiamento non funzionano più, che non viene dato più ascolto né seguito alle loro rimostranze o che, al contrario, il governo sta cambiando ed è indirizzato o ormai avviato verso una condotta dubbia in termini di costituzionalità e legalità.

(Arendt, H., Disobbedienza civile, Chiarelettere, Milano, 2017)

I colori e i toni che ho scelto per dipingere questo quadro sono volutamente eccessivi. Me li sono permessi solo per mettere in evidenza un problema al quale – credo – occorra trovare una soluzione ancor prima di formulare qualche proposta di cambiamento, perché ne rappresenta la condizione necessaria (seppur non sufficiente). Se, con Hillman, conveniamo che “questa è l’età della psicopatia“, pensare di uscirne lapidando gli “psicopatici” sarebbe un errore strategico a dir poco grossolano. Non ne faccio una questione morale, né mi riferisco al fatto che siamo tutti peccatori, per cui nessuno è nella posizione di poter scagliare la prima pietra. Penso piuttosto che, a fronte di uno “psicopatico” armato fino ai denti, l’inerme non dovrebbe esternare rabbia, né tantomeno reagire violentemente. Se lo facesse, mostrerebbe solamente che la sua instabilità mentale supera quella dell’avventore. Penso che, per come si sono messe le cose, conti la fermezza ancor più dell’azione, e la compassione ancor più della rabbia. Anche qui, fermezza e compassione non hanno alcuna valenza morale. Esprimono semplicemente, e rispettivamente, la capacità di rimanere fuori dalla psicosi collettiva che sta montando, e quella di sentire lasofferenza che sta crescendo. Da qui, dalla comprensione della natura e della portata di questa sofferenza, penso debba prendere le mosse una proposta di cambiamento che voglia avere un qualche seguito.

Se raccogliamo le provocazioni cadendo nella trappole della rabbia e della violenza, andiamo a giocare in casa loro, al gioco che meglio riesce loro, con l’arbitro e il pubblico a loro favore. Chi ha il senso del limite non può spuntarla contro chi non ce l’ha. Non facendo il suo gioco perlomeno, questo mi pare auto-evidente. Credo occorra cominciare a vedere i neoliberisti per quello che sono. Ma chi sarebbero, poi, questi signori? Hanno dei nomi e dei cognomi? E dove starebbero? Ho l’impressione che trovare un neoliberista che si dichiari tale, oggi, sia impresa difficile. Più o meno come trovare qualcuno che confessasse di aver votato Forza Italia quando il Cavaliere era al potere, e per ragioni del tutto analoghe: “la sofferenza tende a nascondersi, a non mostrarsi” diceva qualcuno. In genere, mi pare si manifesti nel segreto dell’urna per l’uomo della strada, e nel mimetismo politicamente corretto degli “ultimi uomini”.

Ecco io vi mostro l’ultimo uomo. “Che cos’è amore? E creazione? E anelito? E stella? – così domanda l’ultimo uomo, e strizza l’occhio. La terra allora sarà diventata piccola e su di essa saltellerà l’ultimo uomo, quegli che tutto rimpicciolisce. La sua genia è indistruttibile, come la pulce di terra. L’ultimo uomo campa più a lungo di tutti.

Noi abbiamo inventato la felicità” – dicono gli ultimi uomini e strizzano l’occhio. Essi hanno lasciato le contrade dove la vita era dura: perché ci vuole calore. Si ama anche il vicino e a lui ci si strofina: perché ci vuole calore. Ammalarsi e essere diffidenti è ai loro occhi una colpa: guardiamo dove si mettono i piedi. Folle chi ancora inciampa nelle pietre e negli uomini! Un po’ di veleno ogni tanto: ciò rende gradevoli i sogni. E molto veleno alla fine per morire gradevolmente. Si continua a lavorare perché il lavoro intrattiene. Ma ci si dà cura che il trattenimento non sia troppo impegnativo. Non si diventa né più ricchi né più poveri: ambedue le cose sono troppo fastidiose. Chi vuole ancora governare? Chi obbedire? Ambedue le cose sono troppo fastidiose. Nessun pastore e un solo gregge! Tutti vogliono le stesse cose, tutti sono uguali: chi sente diversamente va da sé al manicomio.

“Una volta erano tutti matti” – dicono i più raffinati e strizzano l’occhio. Oggi si è intelligenti e si sa per filo e per segno come sono andate le cose: così la materia di scherno è senza fine. Sì, ci si bisticcia ancora, ma si fa pace al più presto – per non guastarsi lo stomaco. Una vogliuzza per il giorno e una vogliuzza per la notte: salva restando la salute.

Noi abbiamo inventato la felicità” – dicono gli ultimi uomini e strizzano l’occhio.

(Friedrich Nietzsche – citato in: Galimberti U., Psiche e techne – L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano, 2002)               

Francesco Prandel

La Fionda / Illustrazione di copertina: Màgoz

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