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Com’era bella la Terra vista da lontano

Come oggi, sessant’anni fa, l’uomo andava nello spazio. A dir la verità prima dell’uomo c’era andato un cane, anzi una cagnetta, Laika. Saranno contente le femministe e gli animalisti, ma il primo astronauta non fu un macho ma una cagnetta. Poi, quattro anni dopo, il 12 aprile del 1961, ci andò lo sputnik russo con Juri Gagarin. Fu un evento favoloso, che ci schiodava dalla guerra fredda, dalla crisi di Cuba, dalla paura del conflitto nucleare tra Usa e Urss e ci mostrava il volto entusiasmante della scienza, del futuro, dell’ardimento spaziale.

Però non voglio raccontarvi la cronaca e la storia di quell’impresa, ve la faranno in tanti; ma della meraviglia con cui la seguimmo noi bambini di quel tempo, che non andavamo ancora a scuola. Nello stupore infantile, con gli occhi all’insu, si specchiava lo stupore di un’epoca che avvertiva di entrare in un sogno, in una storia mai vissuta, un’avventura senza precedenti. Era come se a un certo punto noi bambini smettessimo di giocare perché tutto il mondo, pure i grandi, avevano preso a giocare. Lasciavamo i piccoli giochi domestici per assistere e partecipare a un gioco più grande, dove la realtà sconfinava nella fantasia. Il sogno irrompeva nella realtà e tramite la tv, la radio, le parole della gente, si faceva racconto favoloso, mito, come l’Odissea. Entravamo in una dimensione da fiaba, dove i cani come nei cartoni animati, compivano imprese impossibili e guidavano macchine più sofisticate di aeroplani; dove uomini in tuta e casco si facevano déi e sfidavano la gravità, uscivano dalla terra, andavano nei cieli dove abitava Padre Nostro, in compagnia degli angeli.  Quegli uomini super avevano la testa nel pallone: le loro teste, infatti, erano dentro una sfera di vetro come quelle in cui i maghi vedevano l’avvenire. Si erano buttati nel futuro capa e tutto, si diceva da noi.

Anche il nome dell’eroe aveva ai nostri occhi del favoloso: Juri Gagarin poteva essere il protagonista di un fumetto. Allora non mi erano ben chiare le distinzioni tra i popoli e gli stati, e soprattutto non capivo la politica; mi apparve che i russi fossero una specie umana diversa, tra l’uomo e lo spazio, un po’ superuomini e un po’ figli di cagna, che li aveva preceduti. Non capivo cosa fosse l’Unione Sovietica, il comunismo, le bandiere rosse, mi sembrava tutto teatrino per sceneggiare l’impresa spaziale. Anche il razzismo all’epoca era per me la gara a chi manda più lontani i razzi nello spazio, come noi bambini con gli sputi e la pipì. Ma come, dicevamo, non erano gli americani gli abitanti del futuro, non erano loro gli sceriffi del mondo e dello spazio? Da dove sono spuntati questi marziani del soviet? A ricordarlo oggi Gagarin mi sembra Putin da giovane; ma all’epoca no, era a metà strada tra un razzo e un eroe.

Mi deluse molto quando seppi che per ricompensarlo della sua impresa, Gagarin non fu fatto Santo, Papa o Capo del mondo ma ebbe dal regime una casa di tre stanze, più bagno e cucina. Ma come, era come casa nostra allora, com’è possibile? Eppure mio padre non era andato nello spazio. Mi spiegarono che nel suo paese era un privilegio immenso, perché da loro una casa era abitata da più famiglie. E a me un po’ faceva invidia: sai che baldoria la sera, tutti quanti insieme, altri bambini per casa… Non pensavo alla ristrettezza degli spazi, per uno per giunta venuto dallo spazio infinito; ai turni per andare in bagno, alle cucine inabitabili… Mi colpì pure sapere che aveva scritto una lettera d’addio alla moglie Valentina, prima di partire: temeva di non tornare e invece dopo il giro intorno alla terra, in meno giorni di Giulio Verne, tornò radioso a casa sua.

La prima impressione del comunismo fu per me legata allo spazio; mi parve un regime marziano, guidato da un vecchio signore che somigliava a un macellaio del mio paese, ma lui si chiamava Nikita non Nicola; era amico di un barbuto vestito da guardia campestre chiamato Fidel, e litigava sempre con Kennedy.

Quando crebbi negli anni seppi che molti italiani comunisti facevano il tifo per Gagarin contro gli astronauti americani e nella partita Italia-Urss del ’68 tifavano addirittura per l’Urss anziché per gli azzurri. Il loro Gagarin nel calcio si chiamava Lev Jašin, il portiere imbattibile e pure sua moglie si chiamava Valentina (era la stessa, visto che avevano tutto in comune?). Ma proprio nel ’68 Gagarin morì prematuramente, e cominciai a sospettare che i viaggi nello spazio nuocessero gravemente alla salute.

Quel viaggio nello spazio fu per me l’irruzione nella modernità. Fino allora non avevamo la tv, il frigorifero, l’aspirapolvere, l’automobile, le cose moderne. D’un tratto passammo dalla preistoria alla post-storia (la storia era finita prima che nascessi, con la guerra). Ricordo pure una canzone del tempo che immaginava il futuro: “Nel duemila noi non mangeremo più né bistecche né spaghetti col ragù…prenderemo quattro pillole e con gran semplicità la fame sparirà”. Divertente, mi dicevo, però speriamo di no, non c’è conquista dello spazio che valga un piatto di spaghetti.

Ricordo quel tempo d’euforia, c’era qualcosa di elettrizzante nell’aria, non era solo il boom economico e demografico, c’era fame di futuro, sete di novità, fiducia nello sviluppo…Com’era carina la terra vista da fuori. Certo, serpeggiava sotto l’entusiasmo anche un filo di angoscia, ma la sorpresa di vivere tempi speciali prendeva un po’ tutti, perfino i preti. Tutto veniva avvertito come una conquista, un salto dell’umanità nell’infinito.

Non avremmo mai immaginato che poi le imprese spaziali, le gite sulla luna, la vita su Marte, l’industrializzazione, l’urbanizzazione, il comunismo sarebbero finiti così in malo modo…Però era bello pensare che avrei cominciato le elementari sulla terra, poi avrei finito il liceo sulla luna, e sarei andato a lavorare su Marte. E invece, stiamo qui, non solo sulla terra, ma anche tappati in casa, marcati a zona, impediti di spostarci pure nel paese accanto. Ammazza il progresso…

Marcello Veneziani

Illustrazione di copertina: Aleksander Savic

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