Cui prodest?
La tecnica di governo delle moderne pseudodemocrazie è trasparente e rivela in controluce quali interessi in esse predominino e muovano le fila.
Non appena un’emergenza esaurisce la sua spinta ci si deve affrettare a riaccenderne un’altra, in modo da poter dettare la nuova agenda tecnocratica, che non ammette repliche.
Se non esistono emergenze esogene sufficientemente preoccupanti si può ricorrere all’evergreen dell’incombente crisi economica per indurre una situazione critica.
Così, l’arretramento della crisi pandemica riavvia la dinamica dei debiti pubblici. Con affidabilità cronometrica le banche centrali annunciano politiche più restrittive, i tassi d’interesse salgono, il credito e gli investimenti entrano in sofferenza. A breve avremo una magnifica riedizione della stagflazione degli anni ’70: economia in rallentamento in presenza di inflazione.
L’inflazione esogena (dovuta alla restrizione dei canali di approvvigionamento delle materie prime e del’energia) ridurrà ulteriormente i consumi.
Al tempo stesso, nel nome del controllo dell’inflazione si invocherà la necessità di tenere a bada i salari.
Il tutto apparirà come sempre nella luce di un’inevitabile fatalità, una gabbia d’acciaio da cui è impossibile uscire e chi pretende di farlo è un irresponsabile populista.
E questa è naturalmente la mossa fondamentale (“There is no alternative”): far credere che nessuno può farci nulla.
La durezza della vita.
Le ferree leggi dell’economia.
Quegli stessi che predicevano il default per economie con debito pubblico sopra il 120% del Pil ora fanno navigare economie con rapporto al 150%, mentre comunicano al pubblico la stessa percezione, quella di essere arrivati questa volta sì, davvero, proprio al limite, e che nessuna operazione che non sia “massimamente responsabile” è possibile.
Finché si immagina di essere in un meccanismo dalle leggi ferree ed inflessibili non si ritiene che siano in gioco intenzioni, azioni e volontà particolari, e questo permette di rimuovere sempre l’unica domanda rilevante:
A chi giova? (“Cui prodest scelus, is fecit”)
E la risposta non è difficile.
Da tempo il crinale su cui si distinguono gli interessi tutelati da quelli repressi è quello tra chi vive del proprio lavoro e chi vive del proprio capitale. Questa distinzione, va sottolineato, non coincide né con quella tra proprietà privata e proprietà pubblica, né con quella tra lavoro dipendente e lavoro autonomo, che sono entrambe classificazioni oppositive che distraggono dai veri beneficiari.
I grandi detentori di capitale (e qui naturalmente la quantità è qualità) sono una percentuale estremamente esigua della popolazione, e naturalmente distribuiti anche in maniera ineguale tra paesi.
Detenere capitali estesi non è importante perché consente “consumi cospicui” o perché dà accesso a “beni di lusso”. Questa è la patina irrilevante da rotocalco che viene notata, e magari invidiata, dai poveri, ma non è affatto il punto centrale.
Detenere, orientare e manovrare grandi capitali è la principale forma di Potere, anche politico, del mondo contempraneo. Chi detiene grandi capitali può anche serenamente accettare di perdere capitale in termini assoluti se ciò gli consente di acquisire una posizione di potere comparativamente più solida.
Per questo motivo, un’economia reale in difficoltà, un mondo del lavoro stremato, una piccola imprenditoria a pezzi, non sono affatto problemi per chi è nella posizione di riorientare grandi capitali, anche se per una certa fase le difficoltà dell’economia reale possono riverberarsi in una riduzione delle rendite, o persino in una perdita massiva.
Ciò che conta è che dalla crisi la propria posizione comparativa ne esca consolidata.
Se, per dire, la crisi dei consumi, del commercio e della produzione porta temporaneamente ad una riduzione delle rendite, questo non rappresenta alcun problema se, simultaneamente, costringe una parte sempre più ampia della popolazione a vendere i propri residui “asset” (immobili di proprietà, negozi, terreni, licenze, ecc.) e/o ad affidarsi a prestiti, affitti, noleggi, franchising che incrementano la propria condizione di dipendenza.
Alla fine del ciclo il potere comparativo del gestore di capitale sarà superiore, la sua intoccabilità consolidata, la sua capacità di muovere pedine (politica, media) rafforzata.
Chi oggi pensa che il “capitalista” sia il concessionario d’auto, il farmacista o l’avvocato non ha capito nulla del mondo contemporaneo. Queste differenze reddituali, per quanto possano apparire enormi a chi si trova nella fascia più deprivata della popolazione, rientrano in una sfera perfettamente gestibile con forme ordinarie di tassazione redistributiva, nel caso in cui un intervento appaia utile o necessario. Sono dunque fattori gestibili nell’ambito di una democrazia funzionante (se ne avessimo una).
Definizioni alla mano il “capitalista” è il detentore dei mezzi di produzione, ma oggi il fondamentale mezzo di produzione è immateriale, è il capitale finanziario, che gode delle caratteristiche di potere straordinario conferito al denaro dalle tecnologie moderne (perfetta mobilità, incorruttibilità, durata infinita).
Oggi chi detiene le mura del proprio negozio è detentore dei mezzi di produzione in un modo ridicolmente fragile, patetico nella sua esposizione ad ogni vicissitudine del mondo circostante, qualcosa di incomparabile rispetto a chi detiene titoli di proprietà in remoto.
Il vero potere, l’unico che oggi davvero conta, è nelle mani di quest’ultimo, che può trasferire o tramutare in tempo reale un titolo in un titolo differente, un potere in una differente pretesa di potere.
Questo potere disincarnato, virtuale, trae di fatto giovamento da ogni crisi materiale, da ogni catastrofe naturale, da ogni distruzione fisica, da ogni conflitto e degrado sociale, perché ogni momento distruttivo nella realtà vissuta degli uomini comporta un accrescimento della loro dipendenza da chi può dispensare soluzioni, erogando o riorientando i propri capitali.
Illustrazione di copertina: Davide Bonazzi