Economia,  Società

Denaro senza valore e rapida dissoluzione di un mondo

L’accelerazione del paradigma emergenziale cui assistiamo dal 2020 ha come scopo – semplice, ma ampiamente disconosciuto – il mascheramento del collasso socioeconomico in atto. Nel metaverso le cose sono l’opposto di ciò che sembrano. Inaugurando Davos 2022, Kristalina Georgieva, direttrice del Fondo Monetario Internazionale, ha incolpato Virus & Putin per la ‘confluenza di calamità’ che si si sta abbattendo sull’economia mondiale. Nulla di particolarmente originale. Davos infatti non è un covo di perfidi complottisti, ma il megafono di reazioni sempre più disperate a fronte di contraddizioni sistemiche ingestibili. Ai davosiani oggi non resta che nascondersi dietro goffe bugie da ragazzini imbarazzati. L’insistenza con cui ci raccontano che la recessione in arrivo è effetto di avversità globali che hanno colto il mondo di sorpresa (da Covid-19 a Putin-22), nasconde l’amara consapevolezza dell’esatto contrario: è la crisi economica a causare scientemente queste “disgrazie”. Quelle che ci vengono vendute come catastrofiche minacce esterne sono in realtà la proiezione ideologica del limite interno della modernità capitalistica, e della sua decomposizione in atto. In termini sistemici, la funzione dello stato d’emergenza è mantenere artificialmente in vita il corpo comatoso del capitalismo. Il nemico non è più costruito per legittimare l’espansione dell’Impero del dollaro; piuttosto, serve a nascondere la bancarotta di un mondo che affonda nei debiti e nella svalutazione monetaria.

Dalla caduta del muro di Berlino in poi, lo sviluppo della globalizzazione ha minato le condizioni di possibilità del capitale stesso. La risposta a questa parabola implosiva è stata lo scatenamento di una serie di emergenze globali a stretto giro di posta, e integrate da iniezioni sempre più massicce di paura, caos, e propaganda. L’attuale escalation è partita a inizio millennio con l’11 settembre, Al Qaeda, la “guerra al terrore” e la piccola fiala di polvere bianca di Colin Powell. Da lì si sono succeduti i talebani, lo Stato Islamico, la Siria, la crisi dei missili nordcoreani, la guerra commerciale con la Cina, il Russiagate, e infine Virus – in un travolgente crescendo di emozioni. Ora pare che una nuova cortina di ferro sia in via di realizzazione, forse la madre di tutte le emergenze. La ragione elementare di questo cambiamento di passo è che più il sistema si avvicina al redde rationem, più necessita di crisi esogene funzionali a distrarre e manipolare le popolazioni, rinviando al contempo la sua caduta e gettando le basi per la svolta autoritaria.

La storia ci dice che quando gli imperi stanno per crollare si irrigidiscono in regimi oppressivi che negano la loro fine. Non è un caso che la nostra epoca di emergenze seriali sia iniziata con lo scoppio della bolla dot-com – il primo crollo del mercato globale. Alla fine del 2001 la maggior parte delle aziende tecnologiche era fallita, e nell’ottobre 2002 l’indice Nasdaq era crollato del 77%, mettendo in luce la fragilità strutturale di una “new economy” alimentata da debito, finanza creativa, e graduale demolizione dell’economia reale. Da allora, la simulazione di crescita attraverso l’espansione delle attività finanziarie è stata accompagnata dalla produzione di minacce globali, debitamente confezionate dai media aziendali. In realtà, l’ascesa della “new economy” alla fine degli anni ’90 non riguardava tanto Internet quanto la creazione di un immenso apparato di simulazione di prosperità, che avrebbe dovuto funzionare senza la mediazione del lavoro di massa. Ha così trionfato l’ideologia neoliberista della “crescita senza lavoro” (jobless growth) – l’illusione, abbracciata con entusiasmo dalla sinistra, che un’economia in bolla finanziaria potesse dar vita a un nuovo Eldorado capitalista. Sebbene questa illusione ci sia ormai esplosa in faccia, nessuno sembra avere voglia di riconoscerlo.

In effetti, da quando Virus è intervenuto a alzare l’asticella dell’emergenzialismo (prima di essere messo in pausa, probabilmente per essere ricaricato al fine di prossimi reimpieghi) siamo tornati ai soliti escamotage finanziari. Per quanto la nuova infezione dell’Occidente si chiami Russia – usato sicuro, grazie anche al comprovato passato storico (URSS) – è fondamentale rendersi conto che questa fretta di crearsi nemici che incutano tremori esistenziali globali è ormai segno di disperazione, basata com’è sull’aggressiva negazione del fallimento di sistema. Così come Virus, la guerra in Ucraina serve a schermare l’orrore del crollo sociale totale causa scoppio della bolla del debito e, in rapida successione, del mercato azionario. La perversità di tale situazione può essere superata solo portandola alla sua conclusione dialettica: l’unico modo per porre fine alla crisi da distruzione emergenziale è porre fine alla logica economica autodistruttiva che la alimenta.

1. La superficie monetaria

Dopo il tramonto dell’ultimo periodo di mobilitazione di lavoro di massa – il boom fordista del dopoguerra – il capitalismo ad alta automazione produttiva è entrato nella sua crisi terminale, dove il denaro fittizio è sempre più dissociato dal valore mediato dal lavoro. Già a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, l’erosione irreversibile della sostanza-lavoro del capitale, innescata dalla Terza Rivoluzione Industriale (microelettronica), ha dato vita a un sistema creditizio e speculativo transnazionale che ha rapidamente penetrato tutte le forme del capitale monetario. Questa massa di denaro spettrale ha continuato a crescere per autofecondazione, nella misura in cui – come acutamente sottolineato, tra gli altri, da Robert Kurz [1] – solo la sua espansione artificiale consente mobilitazione di liquidità nel mondo reale. La crescita economica degli anni ’90 fu dunque alimentata da un vero e proprio “meccanismo di riciclaggio”, per cui la domanda, il potere d’acquisto, e la produzione di beni e servizi venivano progressivamente sostenuti da quantità sempre maggiori di denaro senza sostanza, proveniente cioè dal settore speculativo. L’economia reale non si fondava più sui redditi da lavoro e sulle entrate tributarie, ma era trainata dalle speculazioni sui prezzi delle attività finanziarie – cumuli di denaro fittizio privi di sostanza valoriale. Questo ciclo di pseudo-accumulazione, basato su liquidità finanziaria che rifluisce nella produzione e nel consumo, è oggi lo stesso fondamentale fenomeno monetario che definisce il “capitalismo d’emergenza,” inflazionistico e dopato di debito. Per necessità, quantità sempre maggiori di capitale fittizio finiscono per sostenere le attività produttive, cosicché, a tutti gli effetti, una quota crescente di accumulazione reale viene presa in consegna dai processi speculativi.

L’attuale grottesca sopravvalutazione di tutti gli asset di rischio (azioni, obbligazioni, e immobiliare) ci suggerisce che le élite continueranno a usare le loro trame politiche per guadagnare tempo e rimandare la deflagrazione di una bolla di debito che hanno iniziato a gonfiare ben prima che Covid e Putin diventassero capri espiatori d’eccellenza. I guardiani del sacro Graal capitalista hanno pianificato per noi uno stato di terrore perenne, nel disperato tentativo di ritardare lo shock da svalutazione monetaria che si sta preparando da decenni. Sebbene lo facciano con metodi sempre più cinici, sembrano essere gli unici a rendersi conto che un tale shock metterebbe in ginocchio il sistema mondiale. Ecco perché l’aristocrazia finanziaria è disposta a fare qualsiasi cosa in suo potere per garantire il prolungamento di un modello economico ormai agonizzante. In questo modo, le élite dimostrano una maggiore comprensione della nostra condizione rispetto a coloro che, in teoria, dovrebbero essere meglio posizionati per valutarla: la cosiddetta intellighenzia post-marxista, insieme alla sinistra postmoderna in tutte le sue varianti assolutamente nulle se non controproducenti. Purtroppo, gli utili idioti della sinistra hanno da tempo tradito il loro mandato fondamentale di critica dell’economia politica, e sono quindi direttamente responsabili della catastrofe in corso.

Non ci sono dubbi che i tecnocrati al timone del Titanic abbiano intuito che la nave sta accelerando verso l’iceberg. Avendo da tempo esaurito le cartucce di politica economica (come il dibattito, a tratti stucchevole, su “austerità o stimolo”), evidentemente hanno scelto di promuovere un programma fatto di paura e propaganda nel tentativo disperato di gestire l’ingestibile. In particolare, hanno compreso ciò che alla maggior parte di noi non può che sembrare controintuitivo: che il crollo del nostro obsoleto modo di produzione può essere ritardato solo attraverso 1) un flusso costante di emergenze globali, 2) la demolizione controllata (inflattiva) dell’economia reale, già di per sé sempre più improduttiva, e 3) la trasformazione autoritaria delle democrazie liberali.

Il teatro perverso della guerra ucraina, proprio come l’affaire Covid, è quindi conseguenza della crescente consapevolezza di un collasso ormai imminente. Per di più, gli attuali gestori del “capitalismo di crisi” sanno che una dolorosa recessione è necessaria a far emergere un nuovo sistema monetario. E riconoscono che tale crisi deve avvenire come demolizione pianificata del modello attuale, che consentirebbe loro di mantenere e persino rafforzare la propria posizione di potere in seno alla nuova normalità capitalistica neofeudale che già si profila all’orizzonte. Razionamento di cibo e energia, immiserimento di massa, credito sociale e controllo monetario attraverso le valute digitali delle banche centrali sono da tempo ingredienti fondamentali della ricetta capitalistica del futuro. Questo scenario fa già parte del nostro immaginario collettivo, considerando che ci stanno convincendo della sua ineluttabilità per causa di forza maggiore.

L’Ucraina ci offre un’immagine letterale di questo meccanismo ideologico. Dietro il loro ipocrita moralismo, i politici occidentali, telecomandati dall’alto, continuano a sabotare la diplomazia sanzionando la Russia e pompando tonnellate di armi in Ucraina, oltre a miliardi di aiuti finanziari. A parte la convenienza parallela di loschi traffici di armi e di denaro, l’obiettivo è quello di prolungare deliberatamente un conflitto che trasforma migliaia di persone in carne da macello, alimentando inoltre le fiamme di una potenziale guerra nucleare. L’Unione Europea, inoltre, continua ad acquistare gas e petrolio russi, essenziali per mantenere un’apparenza di benessere. I leader europei, in altre parole, vogliono la botte piena e la moglie ubriaca: con una mano prendono dai russi (sanzioni e congelamenti valutari) e con l’altra restituiscono (anche in rubli) per assicurarsi energia e altre materie prime.

Nulla ci impedisce, quindi, di unire almeno due puntini. Da una parte, abbiamo un’economia in caduta libera, la cui agonia è a malapena dissimulata dalla dipendenza dal debito e dalle astronomiche “bolle di tutto”. Dall’altra, lo spettacolo voyeuristico dei massacri ucraini, intenzionalmente privati di contesto storico-sociale e alimentati da una propaganda a senso unico. Unire i puntini significa capire che lo scopo dell’emergenza ucraina è quello di tenere accesa la stampante del denaro incolpando Putin della crisi economica mondiale. L’obiettivo della guerra è opposto a quello dichiarato: non difendere l’Ucraina, ma prolungare le ostilità e alimentare l’inflazione nel tentativo di disinnescare il rischio catastrofico nel mercato del debito, che si diffonderebbe a macchia d’olio su tutto il settore finanziario. Non dimentichiamo che il mercato azionario è una sorta di derivato del mercato del debito, che quindi deve essere gestito con estrema attenzione. Mentre il “suicidio assistito” dell’economia reale attraverso shock negativi dell’offerta aggrava l’inflazione dei prezzi al consumo, quest’ultima fornisce un temporaneo sollievo alla mega bolla del debito, rinviandone così la deflagrazione.

Nel recente passato, la preoccupazione principale della politica monetaria è stata la stabilizzazione del debito, finalizzata a ridurre il rischio di un evento che polverizzerebbe l’economia, e con essa le nostre società. La pressione sempre crescente del debito dev’essere periodicamente alleviata, e l’inflazione dei prezzi in questo senso può essere d’aiuto. Come? Facendo da decompressore alla bolla del mercato obbligazionario, visto che l’inflazione riduce il valore reale del debito stesso. Naturalmente, il pericolo è che la dinamica inflazionistica assuma una vita propria (iperinflazione). Il punto, tuttavia, è che i padroni del vapore non hanno più conigli da estrarre dal cilindro: non hanno cioè altra scelta se non quella di deprimere l’economia reale per allungare l’aspettativa di vita della bolla speculativa. In altre parole, ciò che dev’essere evitato come la peste è un evento innescato dalla crisi di debito. Nell’attuale contesto, qualsiasi crescita artificiale della bolla obbligazionaria necessita di un certo grado di deflazione, che oggi è garantita dal combinato di guerra e aumento dell’inflazione dei prezzi. Questa logica perversa può essere compresa considerando il debito a margine degli Stati Uniti, ovvero il capitale preso a prestito e utilizzato per operare sul mercato azionario USA. Dall’ottobre 2021, il margin debt è sceso del 14,5%, mentre il Nasdaq ha perso il 17,6%. Ecco perché l’Ucraina non è che un danno collaterale, per giunta corredato da un catartico lavaggio di coscienza collettiva.

La triste verità è che la “guerra di Putin” (come la “guerra al Covid”) ritarda e in qualche modo ammortizza il trauma del crollo – è per questo che l’Ucraina viene sacrificata sull’altare di un prolungato massacro per la libertà. Il vero obiettivo, ripetiamo, non è aiutare gli ucraini (e nemmeno spezzare le reni alla Russia), ma esorcizzare il “fantasma Lehman”, che oggi spazzerebbe via in pochi secondi la sottile patina di benessere monetario che ancora ci impedisce di dirigere lo sguardo verso l’abisso. Tenere liquido il mercato è l’unico obiettivo che conta per l’industria finanziaria dopata. Sgonfiando una porzione della bolla del debito attraverso l’erosione del potere d’acquisto e la compressione della domanda, le élite si preparano infatti a inondare nuovamente il sistema di instant liquidity, ovvero denaro creato con il clic del mouse del computer. Presto potrebbero addirittura essere annunciati nuovi programmi di Quantitative Easing, forse con nome diverso e grazie alla spinta di un incidente controllato, ma abbastanza grave da garantire l’azione immediata della stampante. A questo proposito, non possiamo dimenticare il precedente del 2018, quando la sceneggiata del Quantitative Tightening (riduzione del bilancio Fed) durò solo un paio di mesi prima di costringere la Fed alla più classica delle inversioni a U. E quando l’azzardo fu ritentato nell’estate del 2019, la crisi del mercato interbancario dei repo di metà settembre ricordò a tutti quanto sia essenziale il bazooka della Banca Centrale.

Se dunque le iniezioni monetarie della Banca Centrale dovessero terminare, un rapido aumento dei tassi di interesse minaccerebbe un crollo del mercato, con default a raffica. Ergo, occorre recitare secondo copione. Oggi, gli effetti del recente rialzo dei tassi da parte della Fed (al range 0.75% – 1%) pesano già sul mercato immobiliare statunitense. Questi rialzi hanno spinto in alto i tassi sui mutui, deprimendo il mercato immobiliare. Tuttavia, se il sentimento degli acquirenti è ai minimi storici, quello dei costruttori rimane relativamente alto – il che conferma che non c’è più alcuna correlazione significativa tra le condizioni economiche reali e la speculazione sui prezzi dei titoli azionari. Infatti, è la Federal Reserve che, acquistando mortgage-backed securities a palate (titoli garantiti da ipoteche su immobili), gonfia la bolla immobiliare quando la domanda è in calo. Eppure tutto questo non è che fenomenologia monetaria. Se solo grattiamo la superficie, emerge infatti la causa fondamentale di tutti i giochetti finanziari, geopolitici, e propagandistici del momento: lo scioglimento della sostanza valoriale del capitale.

2. La sostanza assente

Per quanto venga pubblicamente imputata a Putin – incluso il suo effetto ‘apocalittico’ sui poveri, l’impennata inflattiva cui stiamo assistendo ha origine nella creazione di immense quantità di “denaro senza valore” (denaro non “coperto” dall’accumulazione reale) che, confluendo nell’economia, svaluta inevitabilmente la moneta. I prezzi delle merci non crescono più secondo la legge di mercato della domanda e dell’offerta. Piuttosto, ogni aumento della domanda viene pagato con denaro generato dal nulla economico. Sebbene la svalutazione da politica monetaria allegra venga ora esacerbata dagli shock negativi dell’offerta causati da Covid e guerra in Ucraina, in realtà si tratta di un fenomeno secolare e strutturale, radicato nella dissoluzione del valore capitalistico.

Tendenzialmente, nel negare la causa della loro implosione, tutti gli imperi patiscono una morte lenta e dolorosa. La caduta del mondo capitalista guidato dagli Stati Uniti è iniziata più di mezzo secolo fa ed è stata ritardata solo da ondate di finta prosperità alimentate dalla creazione di denaro (debito) che hanno avvantaggiato una ristretta élite caricando le masse di debiti e miseria. Negli ultimi 50 anni, il debito federale degli Stati Uniti è aumentato di 75 volte (da 400 miliardi di dollari a 30.000 miliardi), mentre il debito totale degli Stati Uniti (privato e pubblico) ha già superato i 90.000 miliardi di dollari (aumento di 53 volte). Poiché dal secondo dopoguerra la maggior parte delle valute è stata legata al dollaro, anche la loro svalutazione è inevitabile. Per oltre mezzo secolo gli Stati Uniti hanno dunque distrutto gradualmente le valute fiat, avviando al contempo “operazioni militari” non provocate all’estero. Ogni temporanea illusione di prosperità è stata comprata con la guerra, il debito, e la stampa di “denaro falso”.

L’odierno tipo di svalutazione inflazionistica è emerso come fenomeno qualitativamente nuovo solo nel XX secolo. Sin dagli albori dell’industrializzazione, il carattere sostanziale delle valute era stato salvaguardato dall’ancoraggio ai metalli preziosi, che in ultimo aveva assunto la forma del gold standard e dei sistemi di banche centrali incentrati su di esso. La fine del gold standard (15 agosto 1971) ha segnato l’inizio del modello economico ultra-finanziarizzato che, passato mezzo secolo, ci sta presentando il conto, nel quadro generale di una colossale espansione del credito.

La crisi globale del capitale si presenta oggi sotto forma di una nuova stagflazione (economia stagnante con inflazione in aumento), che indubbiamente richiama alla mente quella degli anni ’70. Le attuali strozzature dell’offerta e l’esplosione dei prezzi delle materie prime ricordano lo shock petrolifero del 1973, quando l’OPEC ridusse la produzione in risposta alla guerra dello Yom Kippur. Questi fattori esterni comparativi, tuttavia, devono essere collegati a una causa interna comune, che ha a che fare con il raggiungimento del limite interno del potenziale espansivo del capitalismo. La stagflazione degli anni ’70 ha segnato la fine del boom del dopoguerra, che è coincisa con una violenta caduta del tasso di profitto causata dall’aumento esponenziale dell’automazione tecnologica durante la Terza Rivoluzione Industriale. Il keynesianesimo dell’epoca fallì perché reagì alla contrazione economica come da manuale, ossia con programmi di stimolo che riuscirono solo ad aumentare ulteriormente l’inflazione. Di conseguenza, il capitalismo entrò in un nuovo ciclo inflazionistico, a cui il neoliberismo ha poi fornito una via d’uscita distruggendo, insieme ai sindacati, la spirale prezzi-salari, e con essa l’illusione socialdemocratica che il sistema capitalistico potesse essere sostenuto semplicemente attraverso una politica di redistribuzione della ricchezza – come se la ricchezza capitalisticamente intesa fosse una categoria eterna e non storica, limitata cioè dalla dialettica del capitale monetario investito nel lavoro produttivo di valore.

A inizio degli anni ’80, l’inflazione fu combattuta con il “Volker shock”, ossia portando i tassi d’interesse (il costo del denaro) a un livello superiore o prossimo al tasso d’inflazione. Questo innescò una recessione nel centro capitalista e portò la periferia dell’Impero (soprattutto l’America Latina) a una grave crisi debitoria. Ma salvò il capitalismo dal collasso sistemico. Allo stesso tempo, i mercati finanziari statunitensi si espansero fino a divenire dominanti, mentre la produzione nella rust belt diminuì sensibilmente. Gli Stati Uniti si trasformarono così da “officina del mondo” a “centro finanziario del mondo”, una mutazione facilitata dall’utilizzo del dollaro USA come valuta di riserva mondiale. Già negli anni ’70, quindi, il capitalismo aveva iniziato ad affondare sotto il peso della sua contraddizione interna. Marx non a caso chiamava il capitale una ‘contraddizione in movimento’, poiché da una parte tende a ridurre al minimo il tempo di lavoro nella guerra di concorrenza tra le singole imprese, ma dall’altra postula il tempo di lavoro stesso come misura e fonte di ricchezza. Questa contraddizione, che è alla base dell’anonima pulsione capitalistica verso il profitto, è divenuta apertamente autodistruttiva negli anni ’80, quando creazione di debito e simulazione di crescita hanno definitivamente preso il posto del plusvalore mancante.

Dagli anni ’80 il debito globale è aumentato molto più rapidamente della produzione economica. Questo debito dev’essere contestualizzato: esso alimenta l’illusione secondo cui la speculazione finanziaria non farebbe che anticipare la futura realizzazione di capitale, che tuttavia dev’essere spostata sempre più in là nel tempo perché non si accompagna a una corrispondente valorizzazione nell’economia reale. L’attuale capitalismo finanziario è la classica profezia che si auto-avvera, un meccanismo basato sulla creazione di quantità sempre maggiori di denaro senza valore. Se gli Stati Uniti hanno attraversato un periodo di crescita relativa negli anni ’90, nonostante i bassi salari, è stato perché i consumi venivano sostenuti dal credito in quantità sempre più ingente.

Se dunque da un lato la globalizzazione ha fornito una via di fuga all’esausto modo di produzione fordista, dall’altro ha legato le sue fortune a piramidi di debito e eccessi speculativi senza precedenti, rendendo così il sistema sempre più instabile. Non sorprende, dunque, che gli anni ’90 si siano conclusi con la formazione della prima bolla globale, poi scoppiata a inizio millennio. A ciò ha fatto seguito il crollo finanziario del 2008, la cui risposta è stata l’attuazione di programmi di QE, ovvero espansione monetaria attraverso acquisto di obbligazioni e altri titoli da parte delle maggiori Banche Centrali. Poi, la contraddizione è ricomparsa sotto forma di crisi del debito sovrano europeo (2009-12), e infine come trappola di liquidità potenzialmente devastante nell’autunno del 2019 (crisi del mercato repo statunitense), che ha ufficialmente inaugurato l’era del capitalismo emergenziale. La pandemia è stata infatti utilizzata come scudo globale per un’inaudita stampa di denaro con erogazione di credito a basso costo: sotto l’ombrello del Covid, la Fed ha immesso nel sistema più denaro fiat in un anno che in tutti i programmi di QE dal 2008.

In tempi recenti abbiamo persino assistito a una versione neoliberale della gestione keynesiana della crisi tramite continuo abbattimento dei tassi di interesse – l’opposto di quanto avvenuto negli anni ’70. Negli ultimi quattro decenni, a seguito di ogni turbolenza i tassi sono stati ulteriormente abbassati per consentire alla liquidità fresca di stampa di inondare i mercati finanziari. Tuttavia, dal 2008 anche i tassi di interesse a zero non erano più sufficienti, ed è per questo che le Banche Centrali hanno estratto dal cappello il Quantitative Easing, trasformandosi in discariche a cielo aperto di titoli finanziari. Gettando definitivamente al vento ogni prudenza, hanno riempito l’economia di denaro senza sostanza, utilizzando come garanzia titoli spazzatura, senza nemmeno preoccuparsi di passare attraverso il sistema bancario. Il risultato di questa nuova avventura monetaria è l’ormai inarrestabile valanga della svalutazione, che ha preso a rotolare verso valle nell’autunno del 2008. Ciò nonostante, il mondo sembra credere ancora che le Banche Centrali ci trarranno d’impaccio continuando a stampare denaro.

In realtà, l’ultimo tentativo di salvare il sistema sta ora fallendo miseramente. Le economie occidentali continuano a deteriorarsi in un mix di svalutazione, deficit, finanza ipertrofica. La scelta che ci viene presentata è quella tipica delle società industriali avanzate: inflazione o deflazione. O il denaro viene svalutato come equivalente generale (inflazione), o il processo di svalutazione colpisce direttamente il capitale, rendendo improvvisamente superflua la produzione (fabbriche e lavoratori). A differenza del passato, però, sia l’inflazione che la deflazione comportano oggi lo svilimento della moneta fiat, con il bonus del collasso sistemico.

Come discusso in precedenza, i nostri tecnocrati non intendono affatto combattere l’inflazione, ma la usano per sgonfiare porzioni di debito attraverso tassi reali negativi. Ciò equivale a una patrimoniale mascherata: un trasferimento di ricchezza dalle classi medio-basse ai custodi della “bolla di tutto”. Nonostante questo cinico stratagemma, le Banche Centrali continuano a guidare in stato di ebbrezza verso il precipizio, poiché qualunque mossa facciano, sono destinate a sbagliare. Se aumentano i tassi in modo significativo e riescono a ridurre il loro bilancio (Quantitative Tightening), la bolla del debito scoppierà, con conseguenze catastrofiche – un’eventualità anticipata dall’aumento dell’indice dei Credit Default Swaps (CDS), ovvero contratti assicurativi contro le insolvenze debitorie. Se invece ricorreranno nuovamente al Quantitative Easing, l’inflazione salirà ulteriormente. La scelta è dunque tra una crisi deflazionistica del debito e la stagflazione. Entrambe sono peggiori, perché stabilizzare questo scenario è praticamente impossibile.

Con ogni probabilità, la crisi del mercato azionario continuerà a essere rimandata. Il gran finale – un crollo di dimensioni bibliche innescato dall’esplosione dell’iper-bolla del debito – viene attualmente posticipato grazie all’inflazione, che però affossa ulteriormente l’economia reale. Ciò significa che il misery index (indice di povertà, cioè combinazione di inflazione e tasso di disoccupazione) crescerà ulteriormente. Le Banche Centrali possono domare l’inflazione solo a parole, perché sanno che qualsiasi inasprimento della politica monetaria è ostaggio della necessità opposta di continuare a monetizzare il debito (pubblico e privato) – ossia creare denaro dal nulla. In un certo senso, quindi, stiamo tornando alla preistoria del capitalismo, ancora una volta alle prese con il problema del “denaro senza valore”. Il cerchio si sta per chiudere. Tuttavia, lo svilimento del mezzo monetario si presenta oggi come catastrofe della “società del lavoro”, il sistema capitalistico fondato sul lavoro astratto mediato dal mercato. L’attuale violenza bio e geopolitica (virus, guerra e altre emergenze globali a venire) è un momento integrale di questa traiettoria autodistruttiva; un tentativo di gestire l’implosione con mezzi autoritari. Abbiamo di fronte una sola scelta reale: o iniziamo a emanciparci dalle forme della merce, del valore, e del denaro, e quindi dalla forma stessa del capitale, o verremo trascinati in un nuovo medioevo fatto di violenta regressione sociale.

Prof. Fabio Vighi

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Note:

[1] Si vedano per esempio Schwarzbuch Kapitalismus. Ein Abgesang auf die Marktwirtschaft (Frankfurt: Eichborn), 2000, e, in traduzione italiana, Il capitale mondo. Globalizzazione e limiti interni del moderno sistema produttore di merce (Roma: Meltemi, 2022).

Illustrazione di copertina: Davide Bonazzi

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