Cultura,  Società

Divergenti

Il pensiero divergente è stato uno dei protagonisti dell’ultimo decennio nel dibattito pubblico, soprattutto nella sua versione circoscritta di dibattito educativo e didattico. Se ne è parlato molto, come di una forma di pensiero spesso disconosciuta e ostracizzata che andava invece valorizzata in quanto risorsa dell’individuo e della comunità. Il primo studioso a elaborare il concetto di pensiero divergente fu Guilford, nel 1967.

In un suo articolo, Guilford gettò le basi per l’identificazione di un modo di operare della mente caratterizzato da fluidità, flessibilità, originalità, profondità di elaborazione e capacità di valutazione. Guilford contrappose il pensiero divergente al pensiero convergente; il primo è un pensiero in qualche modo produttivo, che nasce da un cambiamento di prospettiva, e va ad individuare relazioni nuove che ristrutturano la natura stessa delle situazioni osservate; il secondo, il pensiero convergente, è invece un pensiero riproduttivo, un modo di operare che si muove all’interno di forme note che tendono a essere ripetute in maniera meccanica.

Si tratta di due modalità operative di uguale importanza, che si pongono come complementari; limitare o sopprimire l’espressione dell’una o dell’altra porta a un impoverimento generale delle nostre funzioni intellettive.

Il pensiero divergente, tuttavia, ha assunto nel tempo una sorta di aurea mistica; più che una qualità conferita in dote a tutti noi, ha preso le sembianze di un talento che si riceva per dono divino. Questo è accaduto in parte per le caratteristiche intrinseche di questo tipo di pensiero, che ha una forte connotazione creativa, sia anche per l’ipocrisia che domina la nostra società. Nell’affermare ripetutamente l’importanza della divergenza, infatti, si esprime appieno il limite del politicamente corretto, che riconosce il valore della diversità solo fino a quando questa non diventi una minaccia per l’ordine costituito.

La società consumista nella quale tutti viviamo è in effetti una delle più conformiste e omologanti che siano mai state realizzate; una gabbia fatta appositamente per normare tutti gli aspetti dell’esistenza umana: dal modo di vestire, a quello di mangiare, di parlare, di comportarsi, finanche di pensare e di sentire. La massa esiste all’interno di un sistema finito e definito, che predetermina ciò che è bello, ciò che è buono, ciò che è giusto e ciò che è vero. Si è liberi di scegliere soltanto se si rimane dentro un recinto di opzioni che sono già state selezionate per noi; chi vuole uscire dal recinto, diventa un problema, una sfida, un pericolo.

Il pensiero divergente non è fatto per essere ingabbiato, però. E’ un pensiero radicale, nella sua ansia di movimento. Per questo non è controllabile, e per questo nella sua autentica espressione non è affatto incoraggiato, ma continua a essere ovunque (tranne in poche realtà illuminate) combattuto e represso. Ciò che si tollera della divergenza è la sua qualità più superficiale; una certa originalità, quasi folcloristica, che viene presto anche questa stigmatizzata e racchiusa in un catalogo prevedibile e accettabile.

Joy Paul Guilford (1897-1987)

Una tale ipocrisia è visibile oggi più che mai; dopo due decenni in cui si parla di intelligenze multiple, divergenza, inclusione, siamo giunti all’epoca d’oro del pensiero monolitico, dogmatico, che non ammette alcun dissenso. Un periodo di censura, discriminazione, gogna mediatica per chiunque osi pronunciare una sillaba non riconosciuta dall’algoritmo ufficiale. La divergenza è considerata in se stessa troppo imprevedibile per la sicurezza dello status quo, al punto che proprio quelle agenzie che si sono proclamate in passato come le più liberali, democratiche e progressiste ne sono diventate le più feroci persecutrici. Il volto del potere è sempre lo stesso, ed è un ghigno disgustato rivolto dall’alto al brulicare delle masse sottostanti. Non importa quale sfumatura il potere abbia assunto prima di consolidarsi, una volta raggiunta la sua posizione dominante diviene autoreferenziale, interessato unicamente alla propria sopravvivenza. La divergenza è il sorriso disincantato che si contrappone a questo ghigno; è qualcosa di inaudito e intollerabile. Essere divergenti significa soprattutto questo: non riconoscere alcun potere precostituito, spostarsi da un punto di vista all’altro senza bisogno di alcuna autorizzazione, analizzare ogni ipotesi come plausibile; significa rivendicare l’indipendenza dello sguardo che genera l’ampiezza e la profondità della visione; significa non delegare, ma assumersi in prima persona la responsabilità di osservare, elaborare, valutare; significa negare ogni postulato e capovolgere ogni certezza; significa camminare sulle nuvole e nuotare nei prati; respirare sott’acqua e sciare sugli arcobaleni; aprirsi con gioia, senza più paura, a tutte le possibilità dell’immaginazione.

Essere divergenti significa essere liberi.

Pietro De Angelis

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Illustrazione di copertina: Marco Melgrati

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