È morto Battiato. Viva Battiato.
La Sicilia appare come un’isola costretta fra la mitologia di Scilla e Cariddi e le ondate a volte dolci e a volte violente della sua anima araba e mediterranea, ora cantata dai versi misteriosi di Omero, ora cullata dalla morbidezza delle parole di Abu Al Hasan. Intrisa di terminologie che sono eredità di una dominazione secolare e di neologismi paravernacolari frutto del genio di Andrea Camilleri. Una terra ricca di sole e umida di dolore, estesa fra ‘immaginaria area di Vigata e la storica ricostruzione del passato così rigorosa e certosina fatta da Ibn Kalta.
Terra madre di cultura e di individui nati per lasciare il segno. Perchè essere siciliani e quindi scrivere, suonare, osservare la vita, recitare è un miscuglio di irrequietezza e di esperienza, di radici e di modernità, di dialetto e di espressioni raffinate, di toni e di accenti. Essere siciliani è essere Verga e Pirandello, Sciascia e Buttafuoco, Celi e Buzzanza, o pure Burruano e Sperandeo, Caruso e Balistreri. È coraggio e sacrificio, come Falcone e Borsellino oppure esperimento e orgoglio, come Carmen Consoli e Franco Battiato. Terra riscattata col sangue, con le cantilene e anche “manipolata”.
E proprio Battiato sapeva mescolare le melodie più meravigliose con le poliritmìe tecnicamente più difficili, sfidando e domando la metrica per piegarla all’ansia di libertà che ne animava il lavoro introspettivo proiettandolo oltre, verso l’infinito. Ripieno di sicilianità come impronta di vita, straripante di originalità filtrata dallo sguardo colto, raffinato, distaccato di artista. Perchè Franco Battiato aveva portato con sè a Milano il cuore della Sicilia, prima di ritornarvi uomo e genio consacrato. E nella città nebbiosa aveva nascosto l’ingombro di progetti e idee del ragazzo attento alle nuove tecnologie, dedito ad arricchire il proprio bagaglio culturale, per poi realizzare la propria visione della musica…
Quasi respinto dalla critica ufficiale e pomposa dopo gli esordi con ‘Fetus’ e ‘Pollution’, irriso per il suo look postmetalmeccanico con pretese prog-rock, studiato per testi visionari sempre in equilibrio fra psicologia e mistero, piuttosto apprezzato per l’abilità con la quale suonava il sintetizzatore, maledettamente coinvolgente quando decise di invadere la scena pop, pure se riconoscibilissimo per quel forte contrasto fra note leggere e ritornelli accattivanti (che di per sè odiava) e un’immagine impacciata e un po’ da gufo triste: allampanato e magro, con la zazzera ribelle e occhialoni neri su un naso per nulla gentile, prorompente, aquilino, storto…
Un modello – a suo modo sofisticato – che era quasi un corpo estraneo al panorama musicale italiano fine anni ’70 e primi anni ’80. Troppo impegnato e ‘pesante’ nella sua ricerca, capace di alleggerirne tuttavia l’impatto sul pubblico, come fu nell’ ‘Era del Cinghiale Bianco’ e della ‘Prospettiva Nievskij’, fino al ‘Centro di gravità permamenente’ e alle collaborazioni con Alice e Giusto Pio. Sebbene il vero Battiato albergasse nella ricerca con il filosofo Manlio Sgalambro, nello studio esoterico, teoretico filosofico o della mistica sufi e nella meditazione orientale. Sfaccettature diverse di un’assai strutturata e complessa architettura intellettuale che lo portò a sconfinare anche in cinema e pittura.
Una vita intera trascorsa per rimuovere una parentesi giovanile commerciale mai condivisa, chino sui libri e fra gli strumenti musicali, tra babbucce e sperimentazione, mosso da una dimensione aperta, critica, multipla, mite nella quale si agitava perennemente inquieto un uomo tanto geniale quanto magro. Che sembrava quasi uno scheletro. Ma capace di produrre capolavori intriganti, suggestivi, delicati, ipnotici. Densi di citazioni colte e scelte inedite, arzigogoli lerrerari surreali e sorprendenti. Intelligente, spiazzante. Poi sempre più dolente, riflessivo, prezioso.
Cantore di languidi amori terreni incastonati in pensieri astratti, celesti, spirituali, Franco Battiato è stato anche autore di opere lontane dal tratto più classico, estimatore e mecenate nei confronto dei giovani e fine cesellatore per voci femminili fuori dal comune, come Milva. In ossessiva ricerca di una dimensione spirituale coerente con una natura a tratti spigolosa, che non sopportava ignoranza e idiozia, specie se se le trovava di fronte assieme, riunite in un unico interlocutore. In questo forse un po’ troppo radical chic e schizzinoso. Esclusivo.
La sacralità del suono però per lui era tutto e comporre era elevazione verso la verità. Lui, ex artista devastante e minaccioso, autore di spettacoli al limite della provocazione, infine trasformatosi in ‘guru’ di se stesso. Spaziando fra generi diversissimi, mai abbandonando del tutto avanguardia e sperimentazione etnica, fino all’opera lirica. All’inseguimento del senso di appagamento interiore che trasmettesse serenità e gli consentisse di cogliere – come poi colse – un frammento di assoluto. Frutto delle sue visioni, dei suoi viaggi mentali verso chissà dove, verso un altrove che ora lo ha catturato e inghiottito per sempre. Come desiderava lui.
Illustrazione di copertina: oblocreature