Fiat iustitia pereant immundi
Volendo azzardare un commento su ciò che sta accadendo nel nostro Paese, non si saprebbe davvero da che parte incominciare. Forse dalla più urgente, da quella torpida sensazione di normalità che fa da sfondo agli eventi, da quell’ipnosi molle in cui la tragedia sfugge e sprofonda. Mentre spirano venti di guerra a oriente getto uno sguardo sulle macerie della guerra che imperversa da due anni in casa nostra, e raccolgo detriti a caso.
La scuola. Ragazzini bullizzati dalle maestre (!) perché non si sono lasciati iniettare una fiala, o per lo stesso motivo esclusi dall’aula. Altri messi ai domiciliari su segnalazione anonima, cioè privati della libertà personale senza processo come non si poteva più fare da circa ottocento anni. Perché c’era l’habeas corpus – c’era.
I docenti. Una settimana fa ha parlato in televisione un professore di medicina. Non so che abbia detto, ma il giorno dopo l’università per cui lavora ha fatto sapere al metamondo di Twitter che le parole del docente «non rappresentano il pensiero dell’istituzione» e ha annunciato «ulteriori azioni». Gli internauti gaudenti rilanciavano con frizzi e lazzi sul cognome del malcapitato, che richiama un ortaggio. In questo alato scambio sarebbe dispiaciuto incunearsi per chiedere che cosa mai fosse il «pensiero dell’istituzione». Da quando esiste, dove è codificato? Non penso nell’articolo 33 della Costituzione (anzi) ma neanche nella lunga storia degli atenei, dove fino a ieri pensavano le persone fisiche, non quelle giuridiche. Se durante la peste del Trecento i dottori delle università (non le università) dibattevano liberamente sui rimedi, oggi invece è la scienza che parla per gli scienziati. Sì, ma allora chi parla per la scienza? Mistero.
Il lavoro. Sempre a scuola, una professoressa ha scritto al suo preside che anche ai colleghi molestatori o violenti è riconosciuta una parte dello stipendio nel periodo di sospensione. Un ex ministro della giustizia ha ricordato che anche agli ergastolani è consentito lavorare e guadagnarsi il pane. I giudici amministrativi lombardi si sono giustamente chiesti perché sospendere una psicologa che lavora coi pazienti soltanto in remoto. Già, perché? E perché chi ha già certi anticorpi deve prendere una medicina per sviluppare quegli anticorpi? E perché il «consenso scientifico globale» che vige a Como non vale più a Chiasso? E perché una puntura conta più di un esame di Stato? Perché sì, perché «va fatto e basta». Perché sarà vero, l’acqua non scorre a monte e sei mesi fa non eri ancora nato. Ma io sono il lupo, tu l’agnello.
La democrazia. Pare che il presidente del Consiglio abbia intimato ai parlamentari di «garantire i voti» necessari per approvare le decisioni del Governo. Solita genitura invertita: l’esecutivo, cioè l’organo «che è atto a eseguire» (così il dizionario Gabrielli), dà ordini al legislativo che gli dovrebbe dettar legge, su mandato degli elettori. Ma siccome un mandante deve per forza esserci, allora chi detta i compiti all’esecutore? Altro mistero.
Ora, ragionando a freddo, non è plausibile che un tale sfascio si sia consumato in così pochi mesi, né che un malanno e qualche decreto abbiano tirato giù da soli un edificio messo in piedi nei secoli. No, i muri dovevano già essere crepati da tempo, da molto tempo e forse fin dall’inizio, sicché il crollo era atteso da tutti, temuto da pochi, salutato da molti. E poi il sole continua a sorgere, il latte arriva sugli scaffali e la televisione trasmette dibattiti e giochi a premi. Il vecchio Orwell ci credeva davvero, che in Germania, in Russia e altrove non regnassero che apatia, arretratezza e terrore e che lì nessuno osasse screziare il grigio della dittatura con una canzone o un sorriso. E noi con lui. Perciò no, non può esserci un regime. Se c’è un filo di luce – almeno per me, almeno finché dura – i tempi non possono essere bui.
Ovviamente non si ignorano sofferenze e violenze, si ascoltano certe storie in famiglia e le si legge sui giornali, e certi metodi mai visti prima se non nei libri di storia. Ma per questo c’è l’ipnotico più gagliardo, quello che normalizza ogni abominio: la giustizia. Va bene perché è giusto così. E lo si può dire ovunque, con l’esaltata soddisfazione di un Savonarola laico o con gli occhi bassi di chi si sforza di ingoiare una lezione dura, ma necessaria. Storditi dalle stupidaggini del progresso crediamo davvero che gli aggeggi materiali ci assegnino una palma anche morale sugli avi, sicché non ci vergogniamo di chiedere una lacrima ai ragazzini che oggi non possono salire sull’autobus perché settant’anni fa, in un altro Paese, qualcuno ci poteva salire purché occupasse i sedili sul retro.
Sarebbe facile dimostrare more mathematico che se l’ingiustizia produce i delitti, la giustizia aizza le stragi. Perché la prima è punibile, la seconda impunita. La prima opera nei limiti dell’obiettivo, la seconda non ha limiti né obiettivi se non sé stessa, né remore, né censori. «Non avete pietà», dice Aglaja al principe Myškin, «ma solo giustizia: perciò siete ingiusto», riassume fulmineo Dostoevskij. E Nostro Signore, che di un tribunale fu la vittima più innocente («nos legem habemus»), non ha mai speso una parola di lode per gli zelanti à la Javert, mentre al contrario chiamava «beati i perseguitati a causa della giustizia» e prometteva loro il regno dei cieli. Di persecuzione e giustizia parla anche la storia di san Paolo. Prima dell’incontro con Dio era appunto un persecutore «irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge», ma da convertito visse non più «con una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quella che si ha mediante la fede in Cristo: la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede» (Fil 3,6.9). La giustizia può perseguire ma se perseguita è altro, è la maschera di un’ingiustizia.
Quindi, che cosa è giusto? Come si spezza il cerchio dei relativi, quello che ci fa piangere per la signora Parks che tornava dal lavoro (sì, era scientifico anche allora) e non per il cinquantenne con prole che oggi al lavoro proprio non può andarci? Tra i tesori spazzati via dalla barbarie moderna c’è sicuramente lo sforzo millenario di agganciare l’etica, e quindi le leggi, a una norma che trascenda i suoi autori e la preservi dall’assurdo di ancorarsi a sé stessa. Se oggi si urla «o-ne-stà!» nelle piazze, sette secoli fa Tommaso d’Aquino metteva all’ultimo gradino della gerarchia delle leggi lo jus civile codificato dai sovrani. Sopra stavano lo jus gentium comune a ogni popolo e la lex naturalis, l’innata disposizione morale dell’anima (sinderesi) che intuisce la lex aeterna con cui Dio ha ordinato il mondo. L’insubordinazione dei gradi inferiori produce arbitrio e violenza.
L’appiattimento di questa necessaria complessità nella dimensione puntiforme dell’ultimo codicillo vergato dall’ultimo burocrate dà la misura di un deserto odierno che è, nell’ordine, spirituale, culturale e morale. Se la giustizia eterna collassa su quella degli uomini, le prescrizioni di quest’ultima mimano i decreti divini: non devono addurre ragioni se non quelle pasticciate e sibilline di un mistero a cui bisogna chinarsi e promettono una salvezza che nel dominio terreno può essere solo quella della sopravvivenza, del comodo e della vanagloria a spese del prossimo. È dall’istituzione di questa pochezza che si è arrivati dove siamo arrivati: ad accettare l’ingiusto perché non c’è altra giustizia; a parlar d’altro persino dai pulpiti perché non c’è a chi rispondere, né sopra né dopo; a convivere con l’assurdo e l’abnorme perché non c’è norma, e quindi neanche il normale.
Il Pedante / Illustrazione di copertina: John Holcroft