Figli comprati, venduti, restituiti: nessuno shock, sarà la norma
Se posso acquistare un utero, un feto, e infine un neonato, potrò anche cambiare idea, restituirlo o scaricarlo dove sia, o no?
“Una vicenda shock” dice la volontaria della Croce Rossa Carolina Casini. Una vicenda shock, ripetono i media di circostanza. Ma shock perché? La piccola di 15 mesi nata in Ucraina da madre surrogata e rifiutata da una coppia italiana, tutto è meno che inaspettata: al contrario, è la logica conseguenza della morale consumistica che ormai contempla anche i neonati. Si ordinano, si comperano, con facoltà di recedere dal contratto. Beh? Che c’è? Non vi sta bene? Ma andiamo, non sarete mica così bigotti, così reazionari, il mondo va avanti, il progressismo che pesa le parole e mette le gonne ai maschietti mica può star lì a formalizzarsi per l’utero Postal Market. Anzi, è una comodità, la scienza, che ha sostituito la morale, lo consente e dunque tutto ciò che si può fare si faccia. E fortuna che la piccina, una volta in Italia, ha trovato una coppia disposta ad adottarla. Ma quanti restano dove sono, destinati agli orfanotrofi di Kiev o di qualsiasi altro posto nel mondo?
Manco li cani. Quelli, i bastardi umani, li mollano in autostrada, i neonati li lasciano direttamente in ostetricia o sul nastro trasportatore. Ma non abbiamo letto, dappertutto, in modo ossessivo, che l’utero in affitto (più esattamente: noleggiato, comperato in leasing) va fatto, è una conquista di civiltà? Non ci hanno insegnato, col dovuto sussiego, che la legge Zan, per ora naufragata, era il prodromo per introdurre l’utero in e-commerce anche da noi? Poi che ad approfittarne siano soggetti facoltosi ai danni di madri a tempo, poverissime, disperate, quindi una sorta di ricatto, non disturba più nessuno, quasi neanche la cara madre Chiesa. Si ciancia tanto di diseguaglianze da abbattere, il pensiero tecnoprogressista non fa che ripeterlo, si parli di clima, economia, etnia, cultura, ma la maternità surrogata proprio su questo si basa: finché un ricco potrà contare sulla disperazione di una miserabile, non ci sarà storia e non ci sarà etica (né fede, per chi ancora la conserva).
E allora, diciamo che “shockarsi” se una infante di 15 mesi viene scartata, dopo essere stata “ordinata”, ritirata e pagata, è quanto di più normale nella logica della compravendita umana: se posso acquistare un utero, un feto, e infine un neonato, potrò anche cambiare idea, restituirlo o scaricarlo dove sia, o no? Non è un figlio, è un prodotto. Presto si potrà ordinare su Amazon, su AliBaba. Molte femministe hanno contestato questa pratica che per comodità si definisce barbarica, ma è escluso che i barbari fossero mai arrivati a postularla via codice civile: sono state aggredite, odiate, minacciate. Chiunque osi dichiararsi contro la “maternità surrogata”, definizione alla vasellina, viene immediatamente tacciato di fascista, militante dei movimenti per la famiglia, oscurantista, carogna. Mentre chi tira fuori una mazzetta di banconote, opziona il figlio secondo i suoi desideri modaioli, e poi lo riscatta oppure lo scarta, sarebbe civile, sensibile, aperto. Ma qui di surrogato non c’è la maternità, c’è l’umanità. Non si pensi che il caso della piccola ucraina sia una eccezione, non si creda alla leggenda della coppia sciagurata: casomai è un esordio, un precedente che finirà per venire ricondotto a routine. Del resto, basta osservare i media, la loro parabola da scandalizzati a possibilisti e infine a complici. C’è una tecnica precisa per far digerire alla pubblica opinione le bestialità, le aberrazioni e le franche menzogne.
Che sarà, poi, di quei bambini una volta diventati adulti? Come reagiranno al loro destino, sapendo di non essere stati concepiti per amore ma per tendenza, capriccio, apparenza e, magari, di essere stati poi rigettati come animali della cui compagnia ci si era stancati? C’è una splendida canzone dei Pearl Jam, sul primo disco, “Alive”, in cui Eddie Vedder racconta il suo sconcerto, autobiografico, una volta informato dalla madre di essere stato il frutto di un “incidente”, e per di più non col padre che credeva, ma con un altro, un amico di lei. Uno shock, stavolta sul serio che il cantante ha esorcizzato in musica.
Beh, qui andiamo molto oltre: io scopro di essere stato fabbricato su ordinazione, poi di non essere venuto come i miei acquirenti volevano, infine, se mi andò bene, di essere stato raccolto da qualche coppia più umana, per amore o compassione. Facile ipotizzare generazioni di traumatizzati, di sradicati dalle radici stesse della vita. Perché una cosa è certa: il figlio Postal Market è realtà e dalla realtà non si torna indietro. Dalla bambina che viaggia da Kiev a Milano Malpensa, con la sua salopette, il suo zainetto con dentro la sua vita, allevata da una tata, che non conoscerà mai, forse, né la madre biologica, né i genitori che l’avevano prenotata, e che neanche si sono fatti vedere al suo sbarco in Italia, idealmente sballottata dall’aeroporto al consolato, alla Procura dei minori di Torino, da tutta questa fogna immorale, non si torna indietro. Ci sono migliaia e migliaia di piccoli disperati, figli della guerra, delle 35 guerre che infuriano oggi sulla faccia della terra; sono carne che non crescerà, sono anime destinate alla bomba o al lager infantile. C’è una disperata e disperante compravendita di piccolini in Afghanistan, conseguente al ritorno dei talebani, in Siria, in Africa, in tutti i buchi di un mondo abbandonato. Potremmo salvare loro (e qui l’Italia dovrebbe davvero diventare decente, snellire le procedure e smettere di rubare sull’amore: adottare un figlio costa 50mila euro, salve le tangenti da distribuire via via lungo il percorso di un iter infinito). Ma no, non è abbastanza trendy, il figlio ci vuole in surroga. Così poi si può sfoggiare come una bandiera ideologica, quando, invece, è solo il cinismo più irresponsabile. Più miserabile. Sempre che, durante la gestazione, non si cambi idea. Magari per ricambiarla dopo qualche tempo e ricominciare da capo con lo scempio di una pretesa demoniaca: sostituirsi a Dio, forgiare e distruggere destini.
Illustrazione di copertina: Emiliano Ponzi