Foucault e Basaglia quarant’anni dopo
Quattro sono gli anni di distanza che dividono la morte di Michel Foucault, avvenuta nel giugno del 1984, dalla morte di Franco Basaglia, caduta nell’agosto del 1980. Da prospettive e necessità diverse hanno analizzato l’organizzazione e il funzionamento della società del loro tempo, svelandone retroscena e storture.
Basaglia, professione psichiatra, non appena termina la sua specializzazione in malattie nervose e mentali all’Università di Padova, comprende che quanto il sapere medico definiva “scienza psichiatrica” altro non era che un mandato sociale attraverso il quale una fetta di cittadini era tenuta debitamente lontana dal resto della società.
Foucault, professione storico e filosofo, attraverso le sue ricerche, prima ricostruisce la natura politica dei massivi internamenti negli asili francesi e poi allarga le sue analisi a tutti i dispositivi sociali con cui il potere controlla e disciplina i soggetti.
Dunque, lavorando in anni contemporanei ma in contesti diversi, si adoperano entrambi per evidenziare come dal connubio sapere-potere discenda un massiccio governo dei corpi. Cos’abbiano ancora oggi da insegnare le loro pratiche è quel che si cercherà di dimostrare nelle righe successive, a titolo di spunto di riflessione appena appena introduttivo a un tema tanto ampio e complesso.
È il 1964. Basaglia partecipa a Londra al I congresso internazionale di Psichiatria sociale con un discorso che poi sarà trascritto nel testo La distruzione dell’ospedale psichiatrico come luogo istituzionalizzato. Era arrivato nel manicomio di Gorizia nel 1961, stesso anno nel quale, per ironia della sorte, viene pubblicata la tesi di dottorato di Foucault Storia della follia nell’età classica. Dalla lettura del libro del filosofo francese, Basaglia ricava l’esplicitazione dell’emarginazione mascherata da cura riservata a una miriade di soggetti sociali evidentemente scomodi alla macchina sociale: poveri, vagabondi, prostitute, politici, omosessuali, mentecatti, alcolisti, dissidenti politici. Il trattamento della follia è una questione morale: il fuorviante necessita d’internamento non per assistenza medica ma per preservare l’ordine sociale. Unite queste ricognizioni storiche all’impatto concreto con l’istituzione manicomiale, Basaglia non ha più dubbi sul da farsi. Si presenta all’aula del congresso con una dichiarazione netta e diretta: l’ospedale psichiatrico genera istituzionalizzazione e quindi va immediatamente abbattuto.
Prim’ancora, fin dai tempi dell’università, quando da autodidatta si era occupato di fenomenologia ed esistenzialismo, Basaglia aveva messo in discussione il ricorso impellente della disciplina psichiatrica alla diagnosi, in quanto alibi scientifico con cui decidere della vita delle persone, spogliandole di diritti e opportunità. In funzione di un’etichetta, resa tanto più autorevole dalla veste di “sapere”, improvvisamente un soggetto cessava di essere tale. Tuttavia – occorre precisarlo ancora oggi a distanza di anni – Basaglia non intendeva negare la malattia mentale in quanto dato clinico, come hanno sostenuto a più riprese i suoi detrattori; semplicemente ne auspicava una messa tra parentesi, al fine di avere un rapporto autentico con la persona. Aveva cioè capito che se alla relazione veniva anteposto un marchio, quest’ultimo finiva inevitabilmente per pregiudicare l’incontro e il raggiungimento dell’altro. E aveva anche compreso che se il bisogno di occuparsi dell’etichetta era così urgente per gli psichiatri e gli accademici del suo tempo era perché da quell’etichettamento non discendevano processi di cura medica, ma di emarginazione sociale.
È il travagliato 1968. Viene pubblicata L’istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico. È un testo dirompente nel quale, a partire dalla situazione nel manicomio goriziano, vengono messe nero su bianco le contraddizioni dell’internamento e la condizione degli internati totalmente privati di libertà e possibilità. L’imprescindibile valore del testo consiste nella pronuncia di un categorico “no” verso le prerogative politiche con cui il sapere scientifico si tramuta in potere psichiatrico. Cosa c’è di più lontano dal concetto di “cura” se non l’esercizio di un potere politico? E cos’è la diagnosi se non il più palpabile effetto del potere di verità che il sapere si arroga per controllare i soggetti? “Ogni società fa della malattia quello che più le conviene” scrive Basaglia ne La maggioranza deviante.
Foucault stesso, a sua volta, in una conferenza che tiene nel 1973 a Montréal riprende questo aspetto problematizzato da Basaglia: il potere del tecnico non è tanto quello di enunciare o non enunciare una malattia, ma di produrre, attraverso il camice, una verità che condizionerà considerevolmente la vita di quella persona. Ecco perché il concetto di “potere di verità” non riguarda solo la medicina, ma tutte quelle istituzioni in cui i soggetti vivono la differenza tra chi ha il potere e chi non ce l’ha.
Il dado è tratto: tanto basta per accostare Basaglia e Foucault al filone della cosiddetta “antipsichiatria”. Oltre il danno la beffa: per lottare contro le etichette hanno finito per riceverne una ulteriore che addirittura li estromette dal sistema di lavoro e di ricerca nel quale operano. Si chiede Foucault: perché fare una storia della psichiatria equivale a meritarsi l’appellativo di antipsichiatra? E come mai rivendica un passato integerrimo e senza macchia? Il filosofo francese non può esimersi dal condannare il preoccupante riduzionismo manicheo nel quale si parla di malattia e di cura: da una parte c’è l’ortodossia del sapere e dall’altra ci sono i suoi contestatori, rei colpevoli di aver avanzato dubbi sia di metodo che di merito. Parimenti Basaglia rifiuta decisamente l’appellativo di “antipsichiatra” e nel ciclo di Conferenze brasiliane tenute poco prima di morire fa ben notare che parlare di antipsichiatria non significa assolutamente nulla. Il vero problema è semmai voler riconoscere o non riconoscere che le persone hanno dei bisogni e delle necessità. Saper rispondere di questo trasforma immediatamente il fare scienza nel fare politica, e gli studiosi delle scienze umane non hanno che questo fondamentale dovere da assolvere.
Sono passati quarant’anni dunque da queste discussioni. Eppure cosa non smettono di ricordare, tanto più oggi, dopo due anni di pandemia e alle prese con un preoccupante conflitto bellico? La risposta copre tre ordini di discorso almeno.
Primo: l’esclusione, in quanto categoria che si colloca al di là dell’umano, non ha mai motivazione alcuna per essere giustificata. Basaglia sapeva bene che, se le sue lotte si fossero limitate alle sole mura manicomiali con la legge del 1978, avrebbero inevitabilmente mancato l’appuntamento con tutte quelle situazioni in cui i soggetti lottano perché privati dei loro diritti. Nella storia cambiano i dispositivi, le logiche e le dinamiche ma non i meccanismi di sopraffazione con cui le classi dominanti attuano processi di discriminazione tra individui. Discriminazioni che, come abbiamo visto, prendono non di rado il via da marchi ed etichette rilasciati con la garanzia dell’autorevolezza del sapere.
Secondo: la visibilità del disciplinamento. Perché il potere sia ben identificabile occorre che sia massimamente diffuso. È la strategia con la quale di fatto si autoreferenzia: più vuole essere autoritario e più deve essere pubblico; più vuole essere punitivo e più deve essere capillare. Tutti devono poter vedere e sapere cosa comporta il mancato allineamento ai canoni imposti.
Terzo: la convenienza delle semplificazioni. La disputa tra psichiatria e antipsichiatria cos’è stata se non un’utilitaristica biforcazione ideologica con la quale screditare chi ha iniziato a sviluppare sospetti sull’ortopedia di alcune pratiche psichiatriche? E come non rivedere in questo fenomeno le stesse dinamiche di discredito che troppo spesso vengono affibbiate a chi, anche nel presente, cerca di ragionare in maniera diversa dal discorso dominante?
Se oggi pensiamo che il pensiero di Foucault e Basaglia sia superato, come pure è stato detto, significa che crediamo di non dover più apprendere nulla dalle loro lotte. Invece proprio l’atteggiamento genealogico con cui hanno interrogato il loro tempo appare tuttora l’unica soluzione all’incapacità di subire passivamente la realtà, se non altro per poter immaginare un futuro diverso. Si tratta di una postura che deve essere assunta nel qui e ora, in quanto soggetti direttamente vigili sul nostro presente e non a posteriori, quando diventerebbe sin troppo facile tessere le lodi di cambiamenti costati però un alto prezzo sulla pelle di altri.
(Intervento tenuto nell’ambito del “Seminario Foucault” – organizzato da Andrea Muni con l’associazione culturale Zeno a Trieste)
La Fionda / Illustrazione di copertina: James Steinberg