
Gli intellettuali e la politica
Senza accorgerci si è imposto un nuovo rapporto tra cultura e politica. Gli intellettuali sono diventati dei moralizzatori, la loro funzione sembra consistere nell’indignarsi di fronte a certi fenomeni, verso il razzismo, il fascismo (quello oramai categoria eterna dello spirito), l’incompetenza etc.
La funzione dell’intellettuale sembra oramai consistere nel produrre nell’altro il senso di colpa, nel produrre un tipo di discorso che silenzia l’altro producendo sentimenti di vergogna.
Questo tipo di struttura discorsiva diventa una condizione di possibilità per essere un intellettuale aggiornato, non fuori moda, e questo vale in particolare a sinistra, ma anche a destra.
Da una parte la retorica dell’amore, dall’altro quella della tradizione, queste due entità magiche, filtrate, purificate, private della loro carnalità e delle loro macchie: sterilizzate per essere consumate come merci, per essere adattate al mercato. A seconda dei gusti, si intende. Il mercato ha domande differenziate e richiede un’offerta differenziata.
Diciamolo, che questa parola è bellissima: un’offerta plurale.
Sta venendo meno, è già venuta meno, un’altra possibilità, secondo cui essere di sinistra ed essere un “intellettuale” (per quanto modesti) di sinistra significa evitare l’atteggiamento moralistico, di semplice condanna morale dei fenomeni, e porsi delle domande sulla loro genesi, sulle loro condizioni di possibilità.
Non si tratta di condannare i fenomeni, o almeno di limitarsi a condannarli sulla base di valori, di norme (i valori di chi? Chi parla in essi? Quale forza si esprime in essi?). Si tratta di capire ciò che li rende possibili, ciò che li genera.
Si tratta di non fare discorsi sui valori, ma analisi delle dinamiche della realtà. Ecco, questo è svanito.
L’atteggiamento moralista serve solo a evitare di affrontare le cause, è un tentativo di nasconderle, di proteggere gli interessi che non si possono o non si vogliono toccare, e proprio qui il discorso moralista e l’enfasi normativista mostrano la propria complicità col dominio.
Quel discorso di mera condanna morale, rifiutandosi di analizzare le cause concrete che producono il fenomeno, si rovescia nel suo opposto, diviene immorale, e alla fine rafforza il fenomeno degenerativo e ne diviene causa, motivo di esistenza.
Solo da l’illusione di essere puri, immacolati, privi di complicità. Una falsa coscienza, una coscienza di malafede in senso sartriano.
C’è forse un nucleo teoretico alla base di questo fenomeno culturale, un nucleo che caratterizza la nostra cultura: la rimozione della storicità della nostra ragione. Siamo nel pieno di un processo di imposizione di una ragione universalistica, come se questa non avesse origine, condizioni di insorgenza, motivi alle sue spalle, interessi che la contaminano.
Questa assoluta mancanza di pensiero critico, questa naturalizzazione di quanto vi è di più storico e di relativo viene chiamato anche critical thinking.
Davvero viviamo in tempi bui
Illustrazione di copertina: Sergio Ingravalle

