Politica,  Società

Harakiri all’italiana

Gli Hikikomori sono ragazzi giapponesi che rifiutano i rapporti sociali e vivono chiusi in casa a oltranza, senza alcun motivo apparente. Schiere di psicologi e sociologi studiano da anni questi comportamenti che, all’inizio del millennio, venivano attribuiti in parte alla dipendenza da tecnologie e, soprattutto, dai videogiochi. Nel 2004 un programma di RaidueFutura City, li mostrò mentre vivevano nel loro ossessionante mondo, in monolocali minuscoli pieni zeppi di elettronica e involucri di fast-food recapitato a casa. In seguito, si è cominciato a considerare la dipendenza dalla tecnologia non come causa, ma come conseguenza della vita alienante, in una società che incute troppe paure.

Pensando all’ultimo anno che abbiamo trascorso, in quante lingue possiamo tradurre Hikikomori? All’inizio della pandemia, tutti impauriti, tutti soldatini. Guardavamo palpitanti gli show di Giuseppe Conte, ci siamo fatti una cultura sulle cento sigle delle mascherine e le sciorinavamo via WhatsApp ad amici e parenti. Poi tutti zoommatori: da casa abbiamo partecipato a convegni e congressi a cui non saremmo mai stati invitati, se si fossero svolti in una sala. Pian piano abbiamo imparato a svegliarci più tardi e a lavorare in tinello (ci hanno detto che si chiama smart, perché così tutto sembra un gioco, anche se in inglese si dice semplicemente home-working). Informatica di base anche per i negati, e poi il vantaggio di non incrociarsi con colleghi e superiori che non sopportavamo, con la pettegola maldicente, con quello che puzza un po’, con l’altro che fuma di nascosto appestando l’etere burocratico. Un po’ alla volta ci hanno fatto apprezzare alcuni aspetti del ritiro nel mondo on-line e, senza rendercene conto, abbiamo quasi scelto la vita di questi eremiti metropolitani del Sol levante. Così, da un anno, sopravviviamo con Amazon e Glovo, mentre se non siamo troppo rossi possiamo metterci in fila per ritirare il cibo da asporto, perché ci insegnano che stare tutti ammassati sia più sicuro rispetto a mangiare al tavolo.

È vero, questo virus è misterioso, ma c’è chi dice che le certezze secondo cui, ad esempio, si sveglierebbe alle 22 e colpirebbe chi esce dal proprio Comune non siano dettate dagli scienziati, ma solo dalla politica. D’altra parte, esattamente un anno fa, l’H-index, classifica mondiale dei virologi, capeggiata dallo statunitense Anthony Fauci con 174 punti, vide Alberto Mantovani dell’Humanitas (167) e Giuseppe Remuzzi dell’Istituto Mario Negri (158) tallonare lo scienziato americano quanto ad attendibilità. Peccato che nello showbiz virologico questi due non siano quasi mai apparsi, mentre i severi censori dei nostri costumi, quelli che quotidianamente e su tutti i canali ci dettano persino il menù e l’orario della nanna, siano Massimo Galli (51 punti) e via a scendere fino a Roberto Burioni (26) e Silvio Brusaferro (21).

Certo, le classifiche non sono oro colato, ma le distanze abissali nella considerazione di questi studiosi qualcosa vorranno significare. Intanto, però, questa strisciante sindrome di Stoccolma hikikomorizza un numero sempre più alto di persone: e non ci sarebbe nulla di strano se qualche ministro, prevedendo la fine della pandemia, censisse i nuovi giapponesi con un sondaggio e immaginasse di farsi un proprio partito quando sarà stato defenestrato. Hikikomori, l’ultima Speranza.

Gian Stefano Spoto

Illustrazione di copertina: Sébastien Thibault

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