I paradossi del Congo, “scandalo geologico” e disastro umanitario
La terribile, atroce morte, il 22 febbraio scorso, dell’ambasciatore Luca Attanasio e del carabiniere Vittorio Iacovacci ha ricordato improvvisamente all’opinione pubblica italiana, sempre molto distratta, l’esistenza del Congo, il «cuore di tenebra» del continente africano. Un’occasione amara, amarissima che ci obbliga a pensare, a far luce su un Paese immenso, grande quanto l’Europa occidentale, e le sue tante, troppe tragedie.
Dal giorno dell’indipendenza dal Belgio, il 30 giugno 1960, il Congo ha attraversato una serie di sanguinose guerre civili, poi la trentennale dittatura cleptocratica di Joseph-Désiré Mobutu a cui è seguita l’opaco regime della famiglia Kabila e la presidenza di Félix Tshisekedi, eletto più o meno pacificamente nel 2019. Ma l’attuale uomo forte di Kinshasa ha poco o nulla di cui sorridere. Il governo naviga a vista, l’esercito resta inquieto, le proteste montano in tutto il Paese. Sullo sfondo una miseria dilagante: malgrado le enormi ricchezze del sottosuolo, il Congo questo formidabile «scandalo geologico» rimane uno dei dieci paesi più poveri del pianeta.
In più il Nord Est la regione del Kivu dove sono caduti Attanasio e Iacovacci è ormai fuori controllo. Da oltre vent’anni un centinaio di milizie armate si contendono a colpi di kalashnikov il controllo di un’area già flagellata da due guerre inter-africane (1996-97 e 1998-2003), punteggiata da spettrali campi profughi e luride bidonville. Un inferno in terra dove operano i volontari italiani della Fondazione Avsi di cui è vice presidente il senatore Alfredo Mantica, già sottosegretario nei governi Berlusconi per l’Africa e amico e mentore di Attanasio. Con questi coraggiosi volontari il giovane diplomatico ha trascorso la serata di lunedì. L’ultima cena della sua vita.
L’ambasciatore era sul posto per seguire il World Food Programme, il piano delle Nazioni Unite per aiutare una popolazione stremata, massacrata dai banditi e ridotta in quasi in schiavitù dai «signori dei minerali». Già, la disgraziata regione è, assieme al Katanga, la cassaforte mineraria del Congo. Oltre ai giacimenti di gas e petrolio celati nel lago Kivu o nel parco del Virunga, la regione è ricca di tantalio, necessario per gli smartphone e i laptop, di cassiterite da cui si ricava lo stagno e, soprattutto, di cobalto.
Già, il cobalto. Una brutta, bruttissima storia. Il minerale serve per la realizzazione di batterie al litio di cui il Congo copre oltre il 60 per cento della produzione mondiale. Un affare gigantesco per le multinazionali dell’elettronica e dell’automobilismo occidentali e asiatiche e per le aziende raffinatrici la cinese Huayou e l’anglo-svizzera Glencore , una nuova tentazione per i famelici boss di Kinshasa e i contrabbandieri che lo trasportano in Ruanda e in Uganda e l’ennesima maledizione per gli abitanti.
Cosa succede? Accanto alle grandi compagnie che impiegano impianti industriali per l’estrazione in parallelo si muove un’umanità disperata che assicura un quarto della produzione. Sono i creuseurs (gli scavatori), una folla di donne e ragazzini che quotidianamente, senza alcuna protezione, rischia vita e salute nelle piccole miniere a cielo aperto per raccogliere e ripulire il minerale per soddisfare gli intermediari (per lo più cinesi) delle grandi società. Quando non crepano sepolti in gallerie fatiscenti o quando non si ammalano a causa delle esalazioni tossiche, ricevono un dollaro, un dollaro e mezzo al giorno. Ricordiamo che nel primo semestre 2020, malgrado i rallentamenti dovuti alla pandemia, sul mercato mondiale il prezzo medio di una tonnellata di cobalto si aggira tra i 28.000 e i 35.000 dollari.
A seguito delle proteste, le grandi compagnie Apple, Dell, Daimler, Sansung, Microsoft, Tesla, Lenovo, Sony, Bmw ecc. hanno assicurato verifiche e inchieste per poi scaricare il problema sui raffinatori del cobalto, ovvero Huayou e Glencore, e il malfermo governo congolese che ha subito dichiarato «l’oro blu» monopolio statale annunciando controlli. Grandi proclami ma, complice il diffondersi del Covid, pochissimi risultati. La chiusura dei confini e la mancanza di cibo hanno rigettato i più nell’inferno delle miniere. Nell’indifferenza dei potenti d’ogni latitudine. Luca Attanasio lo sapeva.
Ancora una volta l’unico punto di riferimento è la Chiesa locale. Nell’anniversario della fine dell’occupazione belga, monsignor Fridolin Ambongo Besungu, arcivescovo di Kinshasa non ha avuto peli sulla lingua e ha tracciato un amarissimo bilancio del fatidico sessantenario: “Contrariamente ai paesi vicini, l’indipendenza è stata una indipendenza più sognata che ponderata: mentre altri riflettevano sul significato dell’indipendenza e preparavano le persone alle sue conseguenze, noi, in Congo, sognavamo l’indipendenza con emozione, passione, irrazionalità, tanto che quando il momento è giunto non sapevamo che cosa sarebbe accaduto. Per i congolesi dell’epoca sognare l’indipendenza significava sognare di occupare i posti dei bianchi, sedersi sugli scranni dei bianchi, godere dei vantaggi riservati ai bianchi. Quando saremo indipendenti diventeremo tutti capi. Occuperemo i posti dei bianchi. Tutto ciò si è verificato: i congolesi hanno occupato i posti dei bianchi. Ma dato che non capivano niente di quello che facevano i bianchi, dato che non capivano l’esercizio dell’autorità o l’esercizio delle cariche, qualunque incarico è stato visto come l’occasione di godere dei vantaggi dei bianchi. Si cercava di accedere al potere non per rendere servizio ma per avere i privilegi dei bianchi. Ma questi, mentre erano seduti sulle loro sedie, non se la spassavano e basta. Lavoravano anche. Comprendevano il senso del loro lavoro. Noi invece abbiamo messo da parte l’idea del servizio da rendere agli altri e abbiamo posto l’accento sul piacere“.
Parole durissime e coraggiose che hanno infastidito non poco i centri di potere congolesi e indispettito i «buonisti» d’Europa.