Economia,  Politica,  Società

Il nuovo mondo di Davos: dalla transizione ecologica al controllo sociale?

Nel suo recente libro Stakeholder Capitalism: A Global Economy that Works for Progress, People and Planet, il professor Klaus Schwab afferma che il modello sociale, economico e politico attuale è giunto al capolinea. Secondo il leader del Wef, le prime avvisaglie di tale crisi erano già evidenti negli anni 1970, a partire dal Rapporto Meadows del 1972, commissionato dal “Club di Roma” di Aurelio Peccei, che individuava i “limiti dello sviluppo” nella crescita “eccessiva” della popolazione rispetto alle risorse disponibili. I documenti e i programmi dell’ultimo mezzo secolo, concretizzatisi nelle varie Conferenze dell’Onu incentrate sul cosiddetto “sviluppo sostenibile” – dal Rapporto Brundtland della “Commissione mondiale sull’ambiente e lo sviluppo” (Wced) del 1987 (in cui venne introdotta la nozione di “sostenibilità”) fino ad arrivare “all’Accordo di Parigi” sul clima nel 2015 con l’approvazione “dell’Agenda Onu 2030”, nella quale sono definiti “17 Obiettivi per lo sviluppo sostenibile” – hanno portato avanti una visione neo-malthusiana, in cui il focus iniziale sull’inadeguatezza delle risorse a sostenere il modello di crescita economica si è progressivamente spostato sui presunti effetti negativi dell’uomo sull’ambiente.

A partire dal 1996, introdotta da Mathis Wackernagel e da William Rees, si è diffusa, infatti, l’ipotesi della cosiddetta “impronta ecologica”, che misurerebbe l’impatto negativo dell’uomo sulla Terra mediante un complesso indicatore aggiornato periodicamente dal Wwf a partire dal 1999. Per l’ideologia “verde” oggi dominante, la popolazione è indubbiamente considerata come la principale minaccia per la “salute” stessa del pianeta, anche al di là del solito tema dei presunti squilibri tra crescita della popolazione e risorse disponibili.

Il concetto di “sostenibilità” si inscrive quindi all’interno di un quadro di riferimento culturale che viene da molto lontano, ostile alla vita e alla famiglia naturale, anche se, ovviamente, non tutti ne sono consapevoli. Benedetto XVI, in Caritas in veritate, non parlava mai di “sviluppo sostenibile” bensì di “sviluppo umano integrale” che poi, in fondo, è l’unico sviluppo davvero “sostenibile”, anche sul piano materiale. L’invecchiamento demografico congiunto al crollo della natalità, infatti, comporta dei progressivi problemi di “sostenibilità” a livello economico e sociale a causa dei crescenti costi – sanitari, previdenziali ed assistenziali – che si scaricano su una popolazione in età lavorativa in costante contrazione. Un rischio che persino la Cina ha compreso, introducendo a fine maggio 2021 la possibilità per le famiglie di avere fino a tre figli: è certamente la solita visione statalista e ideologica che considera le persone come una “massa” da manovrare a seconda dei mutevoli interessi economici e politici, ma comunque un segno evidente di come il “reale” alla lunga si imponga sempre sull’ideologia.

Schwab si focalizza poi sulla svolta definita come “neo-liberista”, iniziata negli anni 1980 con la Reaganomics e il Thatcherismo, incentrata “maggiormente su fondamentalismo del mercato e individualismo e meno sull’intervento statale o sull’implementazione di un contratto sociale”, giudicandola “un errore”. Egli afferma che il modello dominante – che definisce shareholder capitalism perché la responsabilità delle imprese è limitata alla produzione di utili per gli azionisti, senza ulteriori implicazioni “sociali” – dev’essere urgentemente superato nella direzione di quello che definisce lo “stakeholder capitalism del XXI secolo”, dove debbono essere presi in considerazione tutti i “portatori di interesse”, dai clienti ai lavoratori, dai cittadini alle comunità, dai governi al pianeta, in una prospettiva non più locale o nazionale ma “globale”, che richiede quindi un nuovo “multilateralismo”.

In linea di principio, la logica dello stakeholder capitalism è anche condivisibile, giacché le imprese non vivono nel vacuum, ma in contesti sociali e politici. Quindi, oltre alla generazione di profitto per i propri azionisti, servendo al meglio i clienti in una libera e leale concorrenza, è equo che sostengano i costi delle eventuali esternalità e si assumano responsabilità più ampie, secondo il principio del bene comune a cui tutti sono tenuti a contribuire. Che cosa si intende però esattamente col termine “stakeholder capitalism del XXI secolo”? Al cuore di tale modello secondo Schwab vi sono due realtà: le “persone” e il “pianeta”.

Le “persone”: Schwab scrive che “il benessere delle persone in una società influisce su quello di altre persone in altre società, e spetta a tutti noi come cittadini globali ottimizzare il benessere di tutti”. I “cittadini globali” astratti indicati da Schwab esistono però solo nelle visioni ideologiche: le “persone” concrete hanno sempre relazioni, a partire dalla famiglia e dalla società circostante, e sono sempre portatrici di una storia – e di una geografia –, nonché di una visione del mondo. Non esistono i “cittadini del mondo”, se non tra le élite tecnocratiche apolidi a cui si indirizza, evidentemente, il professor Schwab. Nella prospettiva evocata, la sussidiarietà e la stessa sovranità nazionale verrebbero sostituite da prospettive centralistiche e dirigistiche.

Il “pianeta”: Schwab lo definisce come “lo stakeholder centrale nel sistema economico globale, la cui salute dovrebbe essere ottimizzata nelle decisioni effettuate da tutti gli altri stakeholder. In nessun altro punto ciò è divenuto più evidente come nella realtà del cambiamento climatico planetario e nei conseguenti eventi climatici estremi provocati”. La teoria del “riscaldamento globale” di supposta origine antropica (l’acronimo inglese è “Agw”: Anthropogenic Global Warming) e del più ampio concetto di “cambiamento climatico” che ne deriverebbe – al centro dell’attività dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc), un’agenzia dell’Onu dedicata allo studio dell’impatto umano sul cambiamento climatico – è appunto soltanto una teoria, su cui molti scienziati autorevoli non concordano (per es. gli scienziati di fama mondiale Antonino Zichichi e Carlo Rubbia, per restare all’Italia), non una realtà, in quanto manca di conferme scientifiche certe.

A ben guardare, pur considerando l’uomo come il “cancro” del pianeta, l’ideologia ecologista pecca paradossalmente per eccesso di “antropocentrismo” perché attribuisce all’essere umano un potere che nei fatti è ben lungi da avere: non è forse prometeico pretendere di abbassare la temperatura del pianeta come si fa col climatizzatore dell’ufficio e pensare di potere cambiare il clima della Terra come se fosse quello della serra dell’orto di casa? A ciò si aggiunga che tutte le previsioni catastrofistiche fatte in passato sull’evoluzione del clima e sugli impatti sul pianeta e sull’uomo si sono rivelate erronee.

Ovviamente, con ciò non si vuole sminuire l’importanza di contrastare l’inquinamento e di migliorare costantemente nella gestione dei beni creati, anche nel senso della cosiddetta “economia circolare” e nella continua innovazione tecnologica per ridurre gli sprechi: questa corretta “ecologia” non ha però nulla a che spartire con l’approccio ideologico e ostile all’uomo – e alla natalità – della decarbonizzazione e della transizione energetica degli approcci sopra indicati. È ideologico, non scientifico, trasformare una teoria in una certezza, su cui poi impostare azioni di portata colossale e con costi astronomici. Nella prospettiva del cosiddetto “cambiamento climatico” – che è per definizione globale – è chiaro che la sovranità nazionale dovrebbe cedere il passo al multilateralismo e alla governance mondiale: a problemi globali soluzioni globali. Cui prodest?

Schwab non ne parla nel libro citato, ma la “transizione ecologica” a guida Onu non si limiterà alle tematiche di tipo “energetico”, con l’abbandono dei combustibili fossili – che stanno già comportando fortissimi rialzi delle materie prime energetiche con ricadute in termini di dinamiche inflazionistiche sui prodotti e sui servizi –, ma si estenderà anche al cambio dei modelli alimentari, incentivando, ad esempio, la “conversione” al veganesimo e al consumo di “carne sintetica”; per non parlare della “suggestione” ad avere preferibilmente un solo figlio per famiglia, ad adottare uno stile di vita all’insegna dell’austerità, rinunciando a viaggiare per non inquinare oppure preferendo andare a piedi o in bicicletta e utilizzare solo i mezzi pubblici; e chissà cos’altro in futuro, perché la rivoluzione verde, come tutte le rivoluzioni, è un processo in divenire perenne, e quindi non può arrestarsi.

I costi saranno probabilmente stratosferici: Bill Gates li stima in 5mila miliardi di dollari annui, che potranno progressivamente scendere nel corso del tempo, grazie all’innovazione tecnologica, fino a “soli” 250 miliardi di dollari annui di extra–costo nel 2050. Tale extra–costo è indicato col termine “green premium”. Sembra proprio che ogniqualvolta compare l’aggettivo “verde” dobbiamo preoccuparci: i nuovi e pesanti costi, infatti, hanno già iniziato a scaricarsi su contribuenti e consumatori, con inevitabili gravi alterazioni della concorrenza, e quindi delle stesse prospettive di crescita economica futura, a danno dei più e a beneficio delle industrie favorite da tali progetti, oltre che della cosiddetta “finanza sostenibile”. Per non parlare delle pesanti restrizioni alla libertà, che abbiamo già iniziato ad “assaporare”: una decrescita, insomma, davvero poco felice.

Se lo “stakeholder capitalism del XXI secolo” del professor Klaus Schwab si fonda su questi due pilastri, su “cittadini” ridotti a monadi e su un “pianeta” da difendere dagli attacchi dell’uomo – e quindi non più un “creato” che dell’uomo costituisce la dimora –, c’è da temere derive liberticide. Mentre le società e l’iniziativa economica nascono logicamente e storicamente dal basso, a partire dalle persone concrete, inserite in famiglie e in comunità, per poi svilupparsi secondo logiche sussidiarie nei vari corpi intermedi, qui ci troviamo di fronte a una visione distopica fondata su un’antropologia distorta, e conseguentemente su una sociologia “rovesciata”. Una prospettiva atomistica e materialistica, centralistica e dirigistica, dove i “migliori” vorrebbero guidare dal centro e dall’alto, come nella città ideale vagheggiata da molti utopisti che si sono industriati, nel corso dei secoli, di immaginare un “mondo migliore”.

Con riferimento ai pretesi “eccessi di libertà” dei “privati” che avrebbero portato fuori strada il paradigma di crescita impostosi nel secondo dopoguerra, occorre poi fare una precisazione. Di quali “privati” si sta parlando? I Paesi contemporanei sono caratterizzati tutti, chi più chi meno, da una presenza molto forte dello Stato nella vita economica e sociale, da un livello di pressione fiscale e contributiva importante, da un’elevata collusione dei grandi gruppi industriali e finanziari col potere politico – il cosiddetto capitalismo clientelare – e da un monopolio statale sul denaro, la cui quantità viene manipolata ad libitum dalle rispettive banche centrali che negli ultimi lustri intervengono in modo sempre più attivo e spregiudicato per orientare i sistemi finanziari, e quindi economici, dei propri Paesi.

Negli stessi Usa, considerati l’emblema dell’economia libera, il potere politico è colluso con i grandi gruppi privati e lo stesso andamento di Wall Street – nell’immaginario collettivo icona del “capitalismo selvaggio” e del “turbo–capitalismo” – dipende in realtà sempre più dalla politica, in particolare dalle politiche monetarie ultra-espansive attuate dal 2009 dalla Federal Reserve statunitense, solo formalmente indipendente dall’establishment politico-economico. Non ci sono dubbi che esista una liaison malsana tra i grandi gruppi privati e la politica, in forte crescita nell’ultimo quarto di secolo, e ciò va denunciato col termine di “capitalismo clientelare”: aumentando ulteriormente la spesa pubblica non si farebbe altro che accrescere ancora la quota di ricchezza nazionale gestita da tali élite politico-economiche, a tutto beneficio di chi è più vicino ai rubinetti della spesa e a danno di tutti gli altri che pagheranno il conto. Lo vedremo, molto probabilmente, con l’implementazione del “Piano di rilancio europeo” denominato Next Generation Eu (il cosiddetto Recovery Fund), per la ricostruzione post-pandemica, a cui è collegato il piano di attuazione italiano (il cosiddetto Piano nazionale di ripresa e resilienza – Pnrr): entrambi di tipo top-down, basati sul debito e calati dall’alto in modo dirigistico–accentratore. Nel sistema che si sta disegnando, la piccola e la media impresa, che già hanno poca voce in capitolo adesso, rischiano di essere ancora più marginalizzate.

Com’è noto, infatti, la prospettiva di Davos è quella del “Great Reset” dei sistemi economici–sociali–politici attuali per andare verso un “New Normal”, una sorta di governance mondiale, dove delle “cabine di regia” sempre più alte, composte da organismi sovranazionali, Stati, Banche centrali, grandi gruppi finanziari ed economici, media globali, think tank come Davos, assumeranno il ruolo di direttori d’orchestra per decidere dove andare, con quali mezzi e in che modo, per “ricostruire il mondo in modo migliore”, secondo lo slogan B3W-Build Back a Better World del presidente statunitense Joe Biden, condiviso dai Paesi del G7.

Ma come imporre tali cambiamenti? In un suo libro precedente, molto conosciuto, Covid-19: The Great Reset, il professor Schwab scriveva che l’epidemia Covid-19 costituisce una “grande opportunità” per “ripensare, reimmaginare e resettare il nostro mondo”. Il leader del Wef sottolinea che al di là dei dati di fatto, della “realtà”, “le nostre azioni e reazioni umane sono determinate dalle emozioni e dai sentimenti: le narrazioni guidano il nostro comportamento”, lasciando cioè intendere che, con uno storytelling adeguato, sarà possibile indurre un po’ per volta il cambiamento dall’alto, creando il consenso con un mix di bastone e di carota.

L’importanza della “narrazione” per guidare il cambiamento era già stata indicata da Schwab come una priorità in un altro suo testo del 2016 dedicato alla Quarta Rivoluzione Industriale, The Fourth Industrial Revolution: il passaggio dalla narrazione alla propaganda rischia di essere molto veloce, e particolarmente pericoloso se si aggiunge al controllo dei flussi finanziari, a regolamentazioni sempre più rigide, fino alla stessa limitazione della libertà di movimento personale. L’attuazione della “iniziativa del Grande Reset” verso il Brave New World post–pandemico sembra procedere, in questi mesi, con quella “fretta” raccomandata da Schwab come condizione di efficacia. Schwab non ne parla ma è una strategia che ricorda molto quella della Fabian Society, il più antico think tank politico britannico, fondata a Londra nel 1884 e da allora punto di riferimento della sinistra mondiale: “For the right moment you must wait but when the time comes you must strike hard”, cioè “devi attendere il momento giusto ma quando arriva devi colpire duramente”. L’immagine scelta dai fabiani, un lupo travestito da agnello, completa il quadro.

In conclusione, lo “stakeholder capitalism del XXI secolo” del professor Schwab sembra delineare una sorta di “socialismo benevolo”, un’evoluzione su scala planetaria di quel mito evergreen che è lo Stato assistenziale dei Paesi dell’Europa settentrionale. La collaborazione stretta tra grande finanza, big-tech, media e capitalismo clientelare è, ovviamente, necessaria alla realizzazione del progetto: promesse di “salute” e “sicurezza”, garantite dall’alto (nella forma di maggiori sussidi pubblici e di “reddito universale di cittadinanza”); più tasse, meno libertà (e meno responsabilità), meno privacy e meno scelta individuale. Un “socialismo liberale”, insomma, un po’ gnostico e un po’ fabiano, che intende mantenere la sovrastruttura liberal–democratica, ridotta però a un guscio vuoto, mentre le risorse e le decisioni importanti sono destinate ad essere sempre più accentrate presso “tecnici” e “competenti”, presso “cabine di regia” sempre più lontane. Una prospettiva distopica che ricorda più quella evocata nel Nuovo mondo di Aldous Huxley (1894-1963) che non quella paventata in 1984 di George Orwell (1903-1950). Quos Deus perdere vult, dementat prius: qualsiasi progetto contrario alla natura dell’uomo e all’ordine delle cose è destinato inevitabilmente al fallimento finale, ma può tuttavia arrecare dei seri danni, per molti anni a venire.

Quando torneremo, dunque, alla normalità? “Quando? Mai”, scrive Schwab. Ė scritto nero su bianco, basta prendersi la briga di andare a leggere e studiare quello che scrive. Ciò non è rassicurante: occorre approfondire queste tematiche con un serio studio in ordine alla realtà delle cose e ai costi sociali, insostenibili per gli uomini concreti, che sono esigiti per la costruzione del “mondo migliore” immaginato da Schwab.

Maurizio Milano

Centro studi Rosario Livatino / L’Opinione Delle Libertà / Illustrazione di copertina: Sebastien Thibault

Lascia una risposta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *