Il potere di élites e oligarchie nell’età delle reti distribuite
«I partiti democratici servivano a indicare uomini politici di valore e a farli trionfare nella concorrenza politica; oggi gli uomini di governo sono imposti dalle banche, dai grandi giornali, dalle associazioni industriali; i partiti si sono decomposti in una molteplicità di cricche personali». (1)
Una delle più spiccate funzionalità dell’informazione on-line risulta essere la sua capacità di modellare e condizionare le istanze culturali, sociali e politiche discusse negli stessi gruppi, pagine, profili dei social network stessi.
Secondo i padroni dei dati (Big Tech), la democrazia rappresentativa occidentale che ereditiamo dal Secolo Breve, non è in grado di soddisfare adeguatamente le nuove aspettative, i nuovi habitus cognitivi che gli stessi “Signori della Rete” hanno disposto per i cittadini trasformati in utenti, ovvero: la simultanea capacità di accesso alle informazioni, l’estensione della sfera biopolitica nella vita dei cittadini, e un più completo coinvolgimento diretto, consapevole o inconsapevole, dei cittadini nei processi decisionali.
L’illusione della transizione dai modelli di decisione piramidale ai modelli di decisione a rete, alla base delle speculazioni sociologiche e filosofiche dei tecno-utopisti, avrebbe posto gli attori sociali nell’agevolata condizione di comprendere la diffusione del potere nello spazio della Rete.
Tale problema investe la democrazia liberale ancora oggi, ma in maniera pressoché indisturbata, le tendenze verticistiche e autoritarie alla base dell’ethos tecnocratico dei gruppi élitistici continuano ad esercitare un ruolo preponderante nella pianificazione della discussione pubblica e nell’organizzazione della vita sociale.
La disillusione riguardo il rendimento della giustizia sociale nelle democrazie occidentali mostra il concreto potere delle oligarchie globali nella società contemporanea, la straordinaria capacità di infiltrarsi all’interno di qualsiasi organizzazione politica, senza peraltro mettere in discussione i limiti e le storture delle pregresse procedure democratiche, ma nonostante ciò riuscendo in maniera graduale a svuotarne il senso dall’interno.
La fiducia nelle Istituzioni da parte del cittadino comune è stata progressivamente erosa da una classe politica autoreferenziale che sembra non essere in grado di rispondere adeguatamente alle sfide civili nell’età della globalizzazione neoliberista.
Per converso i più fanatici sostenitori della politica 2.0, i tecno-utopisti, impongono all’attenzione mediatica una oramai stantia retorica che dipinge la Rete come l’approdo ad un lido salvifico, incontaminabile, regno d’una libertà impossibile da insidiare poiché in accrescimento.
Il declino del ruolo storico dei partiti nella democrazia rappresentativa, ha progressivamente tramutato la stessa in un esercizio retorico e mediatico formale. Certo è che la Rete ha cambiato in maniera radicale i requisiti necessari per la costruzione della legittimazione e il consenso dei gruppi politici.
«Oggi, tuttavia, viviamo in un tempo in cui la democrazia – come principio, come idea, come forza legittimante il potere – è fuori discussione. Pertanto, se l’oligarchia s’instaura nei nostri regimi, deve farlo in forme democratiche; deve in qualche modo mascherarsi; non può presentarsi apertamente come usurpazione di potere. […] È per questo che l’oligarchia del nostro tempo, non potendosi dichiarare per quello che effettivamente è, deve mimetizzarsi, rendersi invisibile, nascondere la sua faccia». (2)
Non è certamente possibile ignorare le dinamiche economiche e sociali che spingono verso una chiusura di Internet, ovvero verso una sua progressiva trasformazione da spazio aperto a spazio chiuso (in particolare si pensi ai modelli di censura visto a più riprese nei regimi liberal-democratici come anche nei regimi autoritari).
Diversi anni fa in uno studio pionieristico, Stefano Rodotà suggerì che “Internet è un immenso spazio pubblico e non dev’essere né privatizzato, né colonizzato. Ma quali forze possono ridefinire questo spazio, quali risorse politiche si ritrovano in esse e chi può utilizzarle?” (3)
A distanza di anni, coloro i quali avrebbero dovuto rispondere a questa domanda (i gruppi politici), non solamente non si sono mai curati di fornire risposta, ma hanno scientemente scelto di ignorare il quesito aggirandolo. Pare evidente che nessuno voglia salvaguardare l’originaria natura aperta e partecipativa del web.
Le regole che ispirarono l’originario spirito collaborativo di Internet e dei primi standards, vennero immaginate e stabilite da hacker informatici intrisi di autentici princìpi libertari, e che mal si adattavano all’ossequiosa osservanza di convenzioni formali. (4)
I sistemi di interconnessione di Rete tra computer sono stati concepiti sulla base di un ethos decentralizzato, la logica delle reti distribuite ha reso possibile sulle piattaforme virtuali la promozione di relazioni sociali slegate dall’impostazione panottica guidata dagli intermediari-controllori, i cosiddetti gatekeepers.
Anche per questa ragione, gli utenti mal tollerano qualsiasi forma di chiusura promanata da enti governativi. Accade così che qualsiasi limitazione dello spazio virtuale del web e dei social network, assume a livello sociale il significato di censura.
I tentativi di censura digitale corrispondono alla progressiva trasformazione di Internet da spazio aperto a spazio chiuso, alterazione totale dell’originaria natura distribuita della Rete.
Sin dai primordi di Internet, i governi autoritari hanno sempre ricorso ad operazioni di censura con maggior disinvoltura rispetto ad oggi per diverse ragioni: in primo luogo, in passato le difficoltà di accesso alla Rete per l’utente comune rendevano facilmente individuabile le fonti scomode e invise al governo da escludere.
In secondo luogo, rispetto al passato l’e-commerceha oggi assunto un’importanza fondamentale per la crescita economica, per cui una censura eccessivamente stringente e prolungata corrisponderebbe alla contrazione dei profitti per gli stessi colossi finanziari e logistici che operano nel commercio on-line.
Nessun sistema di governo attualmente esistente è stato concepito per rispondere alle esigenze di un così vasto panorama di attori sociali customizzati, portatori di diversi interessi individuali e collettivi.
L’epoca nel quale viviamo è oltremodo ricca di domanda politica. Le masse affluite nelle piazze delle ultime settimane in Francia e in Italia per opporsi ai passaporti verdi, rappresentano solamente una prova di quella domanda politica elusa dal potere.
I partiti politici tradizionali, finanziariamente dipendenti dai gruppi oligarchici, perpetuano logiche clientelari e nepotistiche, e così facendo monopolizzano le risorse della politica. Come noto, i politici tramutatisi in influencer si limitano a recitare uno sbiadito copione.
Nonostante la tecnologia sia in grado di catalizzare cambiamenti rivoluzionari, la contraddizione insita nelle democrazie liberali nei loro periodi di crisi, risulta accentuata e riguarda lo storico compito fiduciario che dovrebbe legare gli eletti negli organi di governo agli elettori: la rappresentanza.
Tra le forme di governo, l’oligarchia è quella meno aperta al ricambio, i gruppi politici che se ne fanno interpreti, ritengono non solo che una élites stia bene al comando, ma che debba tenacemente conservarne il dominio.
«La democrazia esige un vigoroso scambio di idee e di opinioni. […] Eppure molti esponenti del ceto “superiore”, come si autoproclamano, sono sempre stati scettici sulla capacità del cittadino normale di affrontare questioni complesse ed esprimere giudizi critici. Il dibattito democratico, dal loro punto di vista, degenera troppo facilmente in una sorta di rissa in cui la voce della ragione raramente riesce a farsi sentire». (5)
Al declino della politica nelle democrazie liberali corrisponde l’ascesa incontrastata dell’etica del capitalismo finanziario, contraddistinta da colossali processi di privatizzazione dei servizi pubblici, smantellamento del welfare state, che finisce con lo svuotare complessivamente il senso dell’agire politico, del lavoro e la geografia della produzione.
L’astensionismo cresce in tutto l’Occidente e pare un essere un andamento inarrestabile. I riti politici dei partiti tradizionali, vengono ridotti fino alla pantomima. E così è accaduto con i partiti, specie quelli cosiddetti “progressisti”, che avendo scelto di rintracciare il consenso in associazioni e organizzazioni politiche e culturali costruite ad hoc, hanno progressivamente eliminato ogni tipo di carica sociale innovativa. Escludere la diversità di opinione significa escludere la linfa vitale della democrazia.
Le forze politiche progressiste in Europa, avendo ultimato il loro processo di mutazione antropologica, hanno dimostrato la loro spiccata acquiescenza civica, una dialettica a-critica sulle diseguaglianze sociali ed economiche del mondo globalizzato.
Ad aggravare questo scenario, si aggiunge il discostamento, snob ed elitario, da ogni forma di minoritarismo critico che mette in risalto la radicale minaccia che viene rivolta contro il nostro modello di civiltà occidentale: essersi arresi al canto delle sirene del capitalismo finanziario ed esser così divenuti i principali artefici del processo di colonizzazione liberista di ogni spazio sociale.
Come evidenziarono prima Leslie Sklair (6) e in seguito Luciano Gallino (7), sono le élites, ovvero le classi dominanti ad essersi mondializzate, tramite l’egemonia dei mass media, e devono far credere alle masse che il loro potere si fondi sull’intelligenza, sulle competenze e su un presunto senso di responsabilità, privo però di una vera e propria etica della responsabilità.
La sorda autoreferenzialità di questa nuova classe che si considera come una self made élite identifica l’acquisizione dei propri privilegi esclusivamente in base ai propri sforzi. (8)
Un’analisi, questa sulla crisi delle democrazie liberali, magistralmente descritta dal sociologo inglese Colin Crouch:
«Anche se le elezioni continuano a svolgersi e condizionare i governi, il dibattito elettorale è uno spettacolo saldamente controllato, condotto da gruppi rivali di professionisti esperti nelle tecniche di persuasione e si esercita su un numero ristretto di questioni selezionate da questi gruppi. La massa dei cittadini svolge un ruolo passivo, acquiescente, persino apatico, limitandosi a reagire ai segnali che riceve. A parte lo spettacolo della lotta elettorale, la politica viene decisa in privato dall’integrazione tra i governi eletti e le élite che rappresentano quasi esclusivamente interessi economici». (9)
Nell’ottimistica interpretazione dei tecno-utopisti invece, lo spirito originario di Internet identificava l’interconnessione come risorsa strategica per ridisegnare la politica in chiave inclusiva e partecipativa.
I primi coraggiosi pionieri nello studio delle conseguenze sociali nello spazio del Web, immaginavano lo stesso come il più grande incubatore di nuove forme di partecipazione dal basso della politica, uno spazio virtuale avente nella disintermediazione della comunicazione una risorsa per un’eventuale democratizzazione della conoscenza e della politica.
Le narrazioni politiche che i gruppi di potere riconducibili all’establishment elitario veicolano all’interno dell’universo simbolico dei social network, permutano il conformismo proprio della politica tradizionale, la promozione di iniziative propagandistiche che agevolano la conservazione dell’esistente.
I tentativi di annullamento, frantumazione o misconoscimento del dissenso, rappresentano la più nitida diapositiva dell’ethos ideologico antidemocratico incarnato delle attuali élites globali.
Note:
1 Gramsci Antonio, “Il partito comunista”, in L’Ordine Nuovo, 9 ottobre 1920.
2 Canfora Luciano; Zagrebelsky Gustavo; Preterossi Geminello, La maschera democratica dell’oligarchia, Laterza, Roma- Bari, 2014.
3 Rodotà Stefano, Tecnopolitica. La democrazia e le nuove tecnologie della comunicazione, Laterza, Roma-Bari 1997.
4 Elmer-Dewitt Philip, “Battle for the soul of the Internet”, Time 18 marzo 2005.
5 Lasch Christopher, La ribellione delle élite. Il tradimento della democrazia, Feltrinelli, Milano, 2001.
6 Sklair Leslie, The transnational capitalist class, Wiley-Blackwell Publishing, Oxford, UK, 2001.
7 Gallino Luciano, La lotta di classe dopo la lotta di classe (intervista a cura di Paola Borgna), Laterza, Roma-Bari, 2012.
8 Lasch Christopher, La ribellione delle élite, cit.
9 Crouch Colin, Postdemocrazia, Laterza, Roma-Bari, 2003.
Ionoblog / Illustrazione di copertina: Gracia Lam