Influencer anno zero o dell’irreversibilità del disumano
Il girone degli influencer è di quelli infernali, rappresentativo di generazioni che hanno smesso di crescere e non sapranno che farsene del mondo
In Florida una cretina si è fatta dei selfie in posa da cretina davanti alla bara aperta del padre ancora caldo. La cretina in questione, certa Jayne Rivera, 20 anni, svolge il “lavoro” di influencer che sarebbe ritrarsi in pose provocanti al limite del porno, solo una molecola dell’universo postribolare legalizzato delle app cinesi o americane, fronte avanzato del postliberismo gassoso. Da cui la domanda fatale: la tecnologia rincretinisce l’umanità o si limita a tirar fuori quanto di idiota alberga nell’umanità? Dicono quelli che la sanno lunga: ma sì, è una moda, prima o poi passa anche la mania degli influencer. Ma non è proprio così, è che chi inventa la barca inventa anche il naufragio e il naufragio è irreversibile, è come la mela del peccato. Se è vero che i social vanno potenziandosi, che la stessa connettività del 5G servirà a veicolare più contenuti in tempo reale, come si dice per dire nell’immediato, come non pensare che gli influencer evolveranno in qualcosa di ancora più pervasivo e a loro modo condizionante? “Super facile”, come dice quella sedicenne che spopola su TikTok. Il mercato chiede la giusta libertà di azione a patto di ridimensionare le passioni, di liofilizzarle e con gli influencer non si parla di passione ma di calcolo e anche il cadavere di un genitore può diventare fonte di guadagno.
Nell’apparente leggerezza dell’essere, tutto è viceversa calibrato, studiato. “Ho cominciato a dieci anni” dicono i baby influencer che scandiscono le tappe di un cammino meticolosamente organizzato: a dodici il salto di qualità, a tredici la dimensione “professionale”, a quindici i primi contratti importanti, a sedici la struttura societaria, di norma affidata ai parenti prima del salto industriale. E questo ruolo di persuasore non occulto ma esibito, di untore di suggestioni, è talmente indefinito da poter essere inseguito, rivestito da chiunque. In Germania, a Dresda, una poliziotta avvenente, Adrienne Koleszar, si è messa a pubblicare a raffica immagini da calendario su Instagram; messa dalla polizia davanti alla scelta, o agente o influencer, non ha avuto dubbi. Oggi conta un milione di seguaci.
Cantanti, artisti, scienziati, comunicatori, giornalisti, politici, pornostar tendono sempre più a porsi più come “influenzatori” che nel ruolo tradizionale e come tali vengono identificati, percepiti. Una patente di esistenza, come la spunta azzurra su Facebook, che il suo creatore Zuckerberg, per rifarsi una verginità, sta trasformando in Meta, il regno dell’immaginario. Si discute se considerare questa dimensione impalpabile, chiamata visibilità, alla stregua di un mestiere, con le conseguenti garanzie e tutele professionali o un semplice fenomeno mediatico, per dire una compulsione, una distorsione della psiche; il giro d’affari è miliardario, ma uno su un milione ce la fa, agli aspiranti restano meno che le briciole. Un gioco dello sfruttamento extralegale ma non illegale, perché non esistono profili giuridici in grado di ricondurre a chiarezza le ambiguità, gli adescamenti, le lusinghe. Un po’ come per la prostituzione, che, fino a quando resta una scelta volontaria, non è sanzionabile.
Ma che fa? La nube influencer si va dilatando ad avvolgere tutto e tutti, moderno padreterno che non c’è e sta in ogni luogo. Nel tempo dei consumi superflui ma irrinunciabili, del narcisismo paranoico che uccide chi non se lo può permettere, crederla un fenomeno temporaneo è semplicistico. In Cina, un blogger di 35 anni, certo Sun, ha organizzato nel luglio 2019 una diretta su DouYu, lo Youtube cinese, in cui trangugiava gechi, insetti velenosi conditi d’aceto, birra e liquami micidiali. È morto in diretta. Per questo è diventato una star planetaria, postuma ma globale. Il regime cinese adesso si dice preoccupato per l’effetto emulazione.
Pensare che prima o poi la società sarà in grado di sviluppare anticorpi critici è al limite dell’utopia.
Tra i valori delle influencer, uno in particolare sa di comandamento: non buttare via niente, mai, per nessun motivo. Vanno bene le istantanee in perizoma come le smorfie, gli ammiccamenti da zoccola, le foto di finta intimità domestica, senza trucco e, così si fa credere, senza inganno, Meno di tutto si buttano via i figli, possibilmente vivi, e i padri, passabilmente morti. Il mondo deve sapere, deve assistere. Soldi magari no, ma like che nello schema si trasformano in soldi, che è lo stesso. C’è un borsino, per l’Italia uno scatto può valere da quattro a quarantamila euro, cifre ancora contenute dato il mercato domestico, in America si sale alle centinaia di migliaia di dollari, ai milioni.
Valori forti, certamente. Si dibatte se sia giusto dare in pasto al mondo un feto e poi un neonato, o anche un genitore trapassato, ci si domanda quanto ci sia di immorale ma sono domande inutili, questioni di lana caprina: la morale corrente, borghese, non esiste più, il senso etico dell’operazione è ridefinito e imposto dal circo della comunicazione: accusano i signori Ferragnez di vivere in un acquario, di esistere solo dentro la telecamera di uno smartphone, ma loro possono rispondere: finché in dieci, venti milioni consumano i nostri istanti, i nostri sguardi sognanti nella magione della City Life meneghina, voi che potete obiettare? E a loro modo hanno ragione perché il capovolgimento dei valori, del senso stesso attribuito ai valori, è indiscutibile e indiscusso. Chiara, Giulia e le altre possono sponsorizzare prodotti come pellicce, scarpe e borse in pelle animale e subito dopo dichiararsi sensibili ai temi animalisti; possono perfino fare le due cose nello stesso momento. Se qualcuno osa far notare la contraddizione, parte la contraerea dei follower: invidioso, rosicone. E a quel punto ogni obiezione razionale va a gambe per aria, perché vengono a mancare i presupposti dialettici, logici. Le armate dei follower non sono un dettaglio, sono parte essenziale della strategia: Chiara 20 milioni, Giulia 4, e così via, poi si potrà dire, insinuare che la gran parte sono fittizi, che non esistono, che vengono acquistati a pacchetti, ma sono dicerie che si possono e non si possono dimostrare.
La democrazia social! Ma come fai ad opporti decentemente quando le principali testate dedicano a Fedez panegirici come il seguente: “Sposo di una delle donne più potenti e più belle del mondo”, “i due hanno celebrato il matrimonio del secolo”, “il piccolo Leone è dalla nascita una star di Instagram”? E non è piaggeria o semplice pubblicità redazionale, serve a prevenire, a scoraggiare eventuali dissensi, serve a dimostrare che queste influencer, definite iperbolicamente “le donne più potenti del mondo” in qualche misura lo sono sul serio potendo contare su una comunicazione istituzionale che se non è a servizio poco ci manca. Ragazze di venticinque, trent’anni, senza un curriculum apprezzabile, a volte senza neppure l’ombra di un curriculum, più intoccabili di un politico di potere. Dicono che possa succedere a tutti, come la favola di Cenerentola, ma se c’è un miraggio nel gioco di specchi della realtà dopata che usa oggi, se c’è una cosa falsa nel mare torbido delle finte verità e della autentiche bugie, è proprio questa.
Ma niente paura, la professione si evolve, si migliora alla svelta. A Dubai, negli Emirati Arabi Uniti, luogo che quanto a diritti umani forse lascia qualche perplessità, una università americana ha appena lanciato un corso di influencer con lo scopo dichiarato di “essere professionali ed etici” mentre realizzano il loro business.
Nell’orgia di valori, non vogliamo metterci anche certa Chiara Biasi, tanto conosciuta su Instagram (2,5 milioni di follower) quanto insospettata altrove? Chiara a fine 2019 scivola su una buccia di tipo particolare: guardando foto fake di una campagna pubblicitaria, ovvero in pieno scherzo delle Iene, sbotta: “Io per 80mila euro non mi alzo nemmeno dal letto al mattino e mi pettino”. Naturalmente scoppia un casino, seguono ritrattazioni imbarazzate, ma non più di tanto: più sdegnata che ferita, la influencer, freme come una frasca sotto la tempesta per la falsa immagine di lei seduta sopra un assorbente. Oltre l’orlo della crisi di nervi, piange e si dispera (“ne va della mia immagine a livello mondiale!”) per paura di rovinare la sua fama e perdere consensi con un tampax. Mentre non tradisce scrupoli di sorta quando indossa, promuove e sponsorizza pellicce di animali scuoiati vivi: a livello di valori, creature fatte fuori e conciate rendono molto di più e restano, evidentemente, più presentabili. Una debolezza molto popolare tra le influencer, lo abbiamo visto, questa della pelle su pelle: visoni, castori, lontre e chi più ne ha più ne impellicci, da mostrare con approccio più o meno maliardo. Alla inevitabile reazione rabbiosa dei follower, che la vogliono mandare in miniera o altrimenti a lavorare perché non hanno capito come funziona il gioco, l’ineffabile Chiara ci mette la classica pezza peggiore del buco: “Tranquilli raga, io sopra ai soldi non ci sputo mai”.
Il girone degli influencer è di quelli infernali, una specie di schiavismo minorile e anche infantile gestito dalle famiglie, almeno all’inizio, ed è rappresentativo di generazioni disumanizzate che hanno smesso di crescere e non sapranno che farsene del mondo. La balorda fanciulla che scosciava davanti al cadavere del padre, travolta dalle polemiche, ha spento per un po’ il suo profilo, giusto il tempo di farsi rimpiangere; nel frattempo sta facendo il giro delle televisioni e difende il suo gesto: sono influencer, posso fare tutto, mio padre sarebbe fiero di me. Chi siamo noi per giudicare?
Optima Magazine / Illustrazione di copertina: Sebastien Thibault