La banalità del male e lo spirito del giacobinismo
È tutt’altro che certo che la storia si ripeta sempre allo stesso modo: quel che è certo è che si ripete sempre entro certi confini che potremmo definire “principali” (…) Gli avvenimenti del passato e quelli del presente si danno mutuo sostegno (…) per la propria reciproca comprensione. (Vilfredo Pareto)
La realtà distopica che sta compenentrando le nostre vite non è altro che la versione “evoluta” di quanto già prodotto dai giacobini in Francia durante la rivoluzione francese.
È l’ennesima evoluzione, citando Jean Baechler (autore della prefazione al libro Lo spirito del giacobinismo, nella quale egli sintetizza concettualmente il lavoro di puntuale ricerca dell’autore, Augustin Cauchin, e dalla quale è tratto quanto di seguito esposto), di quello che lui chiama l’homo ideologicus, delle sue strategie, in quanto attore sociale, e del tipo di regime politico e sociale che esso impone nel caso in cui acceda al potere.
Tale “tipo” d’uomo, evidenzia sempre Baechler, non è mosso dalle passioni, né spinto dagli interessi; fa ciò che fa non per perversione o per egoismo, ma perché è passato attraverso una ”impastatrice” del tutto particolare, sebbene perfettamente indolore e persino innocente, quella delle “società di pensiero” (si, proprio quelle: esistono ancora…), in cui tali uomini parlano ma non conversano, per giocare al cittadino e al filosofo e conoscere l’ebbrezza di rifondare il mondo senza la fatica di farlo davvero, visto che ci si limita a conversare e che la realtà non è mai presa in considerazione, perché non deve esserlo. La conseguenza, di questo conversare, è che le idee diventano “idee pure” e la Libertà acquista la “L” maiuscola: una pura astrazione, con la quale si può entrare in contatto solo attraverso le parole, non nella realtà. Allo stesso modo, ci si disinteressa degli uomini e ci si appassiona per l’Uomo, si disprezza il popolo (oggi si usa il termine in senso dispregiativo di “populismo”) per esaltare il Popolo, e così via.
La conseguenza, prosegue Baechler, è ineluttabile, benchè non voluta da nessuno, perché, difatti, se i partecipanti avessero potuto prevedere le conseguenze, ne sarebbero stati sinceramente inorriditi (almeno si suppone). E il lato patetico della questione è che la causa del disastro è un fatto insignificante e innocente come la conversazione. Ma la conversazione di queste società non è la stessa dei salotti: in un salotto si deve brillare, e dunque distinguersi. Qui, invece, si conversa per scoprire la verità, che non può essere che una: in una parola, una società di pensiero tende all’ ”unanimità” e non può fare a meno di considerare come un crimine ogni dissidenza e persino ogni dissenso, con l’aggravante, peraltro, che vi si conversa di problemi vitali, di morale, di politica, di economia, cosicchè il dissenso verrà vissuto come perversione piuttosto che come malattia. Ebbene, come si dirà sotto il Terrore, se si cura la malattia il Male lo si “annienta”. Ma per annientare bisogna essere al potere.
Nel mondo reale, la ricerca della verità si basa anche su delle realtà, cioè su esperienze e difficoltà superate. In una società di pensiero la verità è, invece, la proposizione su cui tutti quelli che partecipano alla conversazione sono d’accordo: la verità è questione di opinione, non di esperienza. L’opinione costituisce l’essere. È reale ciò che gli altri vedono, vero ciò che dicono, bene ciò che approvano: così l’ordine naturale è rovesciato, l’opinione è causa e non, come nella vita reale, effetto.
Dal momento in cui (prosegue sempre Baechler) il vero sorge nel punto in cui i conversatori si trovano d’accordo, basta che un progetto sia coerente, cioè che non contenga contraddizioni logiche, e che venga accettato dai propri pari, perché passi ipso facto per realizzabile. Nessuna obiezione può essere opposta dalla realtà, dal momento che la realtà è assente, né da argomenti tratti dall’esperienza, dal momento che si fonda un mondo nuovo (“nulla sarà come prima”, ci è stato ripetuto all’inverosimile).
Il solo rischio per un piano del genere è di imbattersi in un secondo piano, concepito nelle stesse condizioni, ma divergente: in questo caso l’unica soluzione è l’anatema reciproco, con scissioni ed epurazioni. Tuttavia, finchè le società di pensiero non sono al potere, questi conflitti si limitano a ferire le vanità (osserva Baechler): al potere, faranno cadere le teste.
Tuttavia, assai presto, le società di pensiero vengono sottoposte a un meccanismo di selezione: in effetti (continua sempre lo stesso autore) non tutti hanno le doti necessarie a diventare “homo ideologicus”, ci vogliono una certa leggerezza di spirito, gregarismo, ignoranza… assai largamente diffusi ma non universali. Gli individui più competenti, più profondi, più colti, si elimineranno assai presto da soli per incapacità di sopportare la conversazione degli imbecilli (sembra di assistere ad una descrizione “stranamente” familiare…). Resteranno solo gli spiriti più conformi alla logica dell’istituzione: i giovani, che mancano di esperienza e possono illudersi che tutto sia possibile; gli uomini di legge, di penna e di parola, che amano parlare e vivono già in un mondo a parte; gli scettici, che sono vuoti; i vanitosi, giacchè la conquista dell’opinione altrui corrisponde alla loro particolare passione; i superficiali, perché sono superficiali. Avviene dunque una selezione puramente meccanica: basta la forza delle cose, i più leggeri saliranno per conto loro in alto, i più pesanti e i più carichi di realtà cadranno a terra.
Dal momento in cui la selezione opera la separazione tra uomini e ideologi è inevitabile che i primi abbiano sempre la meglio nel campo del pensiero e della scienza, ma perdano regolarmente quando si tratta di battersi: l’inferiorità degli uomini dipende, infatti, dalla loro ripugnanza a coalizzarsi. E dunque, se le cose arrivano al punto in cui la critica cede la parola alle armi (qualunque tipo di “arma”), gli ideologi vincono e si impadroniscono del potere (anche qui la descrizione della dinamica assume connotati molto familiari…): da questo momento essi possono uccidere e far regredire il pensiero.
Le società di pensiero (prosegue ancora Baechler) si costituiscono necessariamente in una rete, che tende a
rinserrare le sue maglie su tutto il paese e persino sul mondo esterno. Il grado di astrazione e di irrealtà raggiunto infatti dall’ideologia, la rende adatta a venire accolta ovunque: la Libertà può sedurre un angioino come un cinese o un irochese, mentre le libertà francesi, o inglesi, o ateniesi, non sono trasferibili. Per cui, dal momento in cui ci si sente capaci, in seguito a una chiacchierata, di riformare una provincia, ci si sente subito altrettanto capaci di riformare l’universo, visto che si vive nel mondo delle maiuscole, che ignorano i particolarismi.
Tra le società di pensiero, inoltre, si stabiliscono delle corrispondenze, ci si incontra e ci si invita in occasione di spostamenti per ragioni di lavoro, e così via: non c’è bisogno di supporre un coordinamento volontario e organizzato da un centro – che peraltro non è affatto escluso, come accadde nel 1793 in Francia – perché una consegna, una parola d’ordine, o anche soltanto una nuova opinione, si diffondano per tutta la rete alla velocità consentita dalle tecniche di comunicazione. L’unanimità nazionale, e persino internazionale, viene così ottenuta meccanicamente, senza costrizioni né volontà deliberata.Il risultato, inoltre, è tanto più importante in quanto il resto della società non costituisce invece nessuna rete, ma si trova divisa in una miriade di unità separate: di conseguenza, in caso di aperto conflitto tra le società e la società è inevitabile che siano le prime a vincere, per quanto nulle e incredibilmente minoritarie: una coalizione ha sempre la meglio su nemici divisi.
Come il virus invade un organismo sano, una minoranza insignificante, composta di personaggi insignificanti, si trova in grado di pesare sui destini della maggioranza, ingannandola e manovrandola. Che cosa vuole? Tendere a una rifondazione generale della società secondo i principi astratti prodotti dalla conversazione (“nulla sarà come prima”…). Una minoranza infima, ma risoluta, può vincere a condizione di poter raccogliere le masse attorno a rivendicazioni anodine o palesemente vantaggiose, e di non avere contro di sé altro che avversari divisi o screditati. In mezzo a una folla disorientata e atomizzata, un pugno di individui può essere onnipotente, purchè si accordi in anticipo senza mettersi in luce: sono stati i francesi a fare la rivoluzione, ma non lo sapevano, ora siamo noi a fare la “rivoluzione” che marcia sulle nostre teste, ma non lo sappiamo.
Giunto al potere, l’homo ideologicus impone necessariamente il terrorismo: il contatto con la realtà moltiplica gli ostacoli insormontabili e qualsiasi manifestazione di forza si trova a essere giustificata in anticipo. Difatti, appena giunto al potere, questi fa un’esperienza sconvolgente: il popolo non è il Popolo, gli accade anzi, frequentemente e anzi addirittura sistematicamente, di non agire e di non pensare come farebbe il Popolo. L’homo ideologicus decreterà dunque che il popolo è corrotto e che bisogna costringerlo alla virtù con ogni mezzo (anche qui non sfugge una certa familiarità con il contemporaneo… il medesimo schema può essere replicato sui vari piani, dal sanitario, all’economico, al sociale e così via). Oltretutto, l’homo ideologicus è, come tale, al di sopra di ogni legge, di ogni giustizia, di ogni morale convenuta: nel 1793 e nel 1794 la Francia, stupefatta, assiste alla fondazione di una teocrazia politica; oggi il mondo, stupefatto, assiste alla fondazione di una teocrazia politico-economico-sanitaria. Anche in questa, il potere non ha più avversari, ha soltanto nemici; ogni divergenza od opposizione viene a essere demonizzata: non si tratta col diavolo, lo si annienta.
Così, il regime ideologico, per propria natura, è portatore di terrore, e di quello più estremo, proprio perché il più legittimo. Ugualmente, il modo in cui l’homo ideologicus affronta la realtà è caratterizzato da due dominanti: l’irrealismo e il panico. L’irrealismo è la conseguenza diretta della formazione ricevuta, in cui si conversava senza pensare ad agire, onde per cui le regole più elementari e sperimentate della vita economica vengono sistematicamente violate: così, se si volevano svuotare le macellerie, bisognava imporre ai contadini la consegna di una bestia a data fissa; privo di cibo e di cure il povero animale moriva però prima del tempo o si presentava al macello tutto pelle e ossa. E così di seguito. E tuttavia, l’esperienza della catastrofe non serve a correggere nulla, al contrario suscita fughe in avanti. Le catastrofi non vengono messe in rapporto alla stupidità delle misure prese, ma alla malvagità del popolo e soprattutto ai complotti della fazione nemica a cui vanno le attenzioni preferenziali del momento(come le colpe dei “complottisti” e “no vax”): si tenta dunque di forzare la realtà rafforzando le misure prese e massacrando.
È questo processo che confuta la difesa che consiste nel giustificare il Terrore con la necessità di rispondere alla sfida delle circostanze, le quali sovente non sono altro che il prodotto delle misure stesse del Terrore (impossibile non individuare una strettissima analogia con il Terrore sanitario di contemporanea memoria): è implicito nella natura terrorista del regime ideologico (quale espressione degli uomini che sono il prodotto delle “società di pensiero”) sia la tendenza a provocare catastrofi del tutto evitabili, sia quella a rafforzare il terrorismo per superarle. Qui non siamo nella logica razionale, ma in quella ideologica. Il Terrore, in definitiva, funziona senza terroristi.
Il meccanismo funzionò implacabile fino al 9 Termidoro (27 luglio 1794), quando il popolo reale si sarebbe svegliato e avrebbe eliminato gli ideologi: in quel momento l’opinione pubblica, atterrita, constata che il popolo è stato martirizzato non da mostri, ma da mediocri e imbecilli. È la banalità del male.
Ionoblog / Illustrazione di copertina: Owen Gent