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La difesa dei nostri valori

Negli ultimi due giorni abbiamo assistito ad una parata ideologica come non se ne vedevano dalla caduta del muro di Berlino.
Il G7 prima e la riunione della Nato poi hanno colto l’occasione per sparare a palle incatenate contro il “nemico”, nelle vesti di Russia e Cina.
Il messaggio veicolato dai leader occidentali – capitanati dal “mite” Biden (figuriamoci se era un guerrafondaio) è che ci siamo “noi”, l’Occidente, e poi ci sono “loro”, gli “altri”, dalla cui aggressività ci dobbiamo difendere e che minacciano “i nostri valori”.

A più riprese, vari leader, dal segretario della Nato Stoltenberg al presidente Draghi hanno ripreso questo punto: “dobbiamo difendere i nostri valori”.

Simultaneamente sui media partiva la batteria standard della propaganda atlantista, con servizi a salve sui diritti degli Uiguri, missili terra-aria sulle violazioni degli hacker russi, siluri sulle origini del virus nel laboratorio di Wuhan, oltre alla sortita settimanale del soldato Gabannelli lanciato spericolatamente dietro le linee nemiche (ieri a spiegarci come i giocattoli cinesi avvelenino i nostri bambini).

Il modello argomentativo è quello sperimentato della “guerra fredda”, dove i popoli occidentali erano chiamati a difendere la propria identità valoriale di fronte agli attacchi del perfido nemico trinariciuto.

Viene da scherzarci sopra, però davanti ad un appello identitario a base valoriale per la difesa dal nemico è opportuno drizzare le orecchie.

Questo è il tipo di discorso che tipicamente serve a preparare la manovalanza plebea ai “sacrifici della guerra per difendere ciò che è più sacro”.
Quando le èlite economiche occidentali percepiscono qualche minaccia al proprio stile di vita scatta il riflesso condizionato: dalla Prima Guerra Mondiale alla guerra del Vietnam, chiamano alle armi la plebe a “difendere i nostri valori”. Al contempo procedono a dipingere il nemico in termini caricaturali e disumanizzanti, in modo da farne risaltare la profonda incolmabile diversità antropologica.  

Un grande classico, e funziona sempre.

Solo che questa volta l’appello ai “nostri valori” deve rimanere necessariamente assai nel vago.
E’ importante che si eviti di entrare nei dettagli, perché mettersi a soppesare troppo da vicino quali sarebbero i “nostri valori” da difendere potrebbe risultare imbarazzante.

Già se ci limitiamo alla mera Realpolitik, dunque ad una concezione minimalista dei “valori”, appare chiaro come Russia e Cina stiano facendo esattamente ciò che hanno fatto in modo incontrastato gli USA dal 1945 in poi: stanno usando la propria potenza militare (Russia) e la propria potenza commerciale (Cina) per ampliare la propria sfera d’influenza.

Finché erano gli USA ad andare in giro nel mondo a guerreggiare in casa altrui per ottenere rovesciamenti di regime, quello era un impegno idealista per la difesa della libertà.
Quando lo fa la Russia verso i paesi del suo vecchio impero, questo è feroce imperialismo militare.

Finché erano gli USA ad estendere il proprio potere a colpi di accordi commerciali e flussi di capitale strategici, quella era l’apoteosi del libero commercio.
Quando lo fa la Cina, questo è perfido imperialismo economico.  

Ma il richiamo ai “nostri valori” è ancora più insidioso, perché mai come oggi questo appello suona stanco e disperato.

E’ chiaro a chiunque non sia politicamente ipovedente che siamo di fronte innanzitutto ad un richiamo all’ordine degli USA, che sanno di star perdendo la propria unilaterale supremazia mondiale. Si invoca perciò un compattamento delle fila degli “alleati”, in modo da difendere le proprie roccaforti economiche, che non sono più difendibili confidando semplicemente nella superiorità economica e militare.
In parte questi “alleati” sono tali obtorto collo, perché sanno di essere il vaso di coccio sacrificabile dell’impero americano, cui gli USA non possono più garantire un futuro affluente.
E tuttavia sanno anche di essere tenuti a catena corta, essendo di fatto sotto controllo militare diretto delle forze americane dispiegate sul proprio territorio.

L’appello ai “valori comuni” suona particolarmente patetico nel contesto di un Occidente il cui sistema di sfruttamento plutocratico ha fatto strame sia di tutto ciò che è “comune” che di tutto ciò che è “valore”.
Si tratta di un appello che può riuscire convincente solo nella misura in cui riesce a tenere bloccato lo sguardo sul nemico, dipingendolo come disumano e antidemocratico.
Ma deve confidare sul fatto che la gente non sposti lo sguardo dal “nemico”, perché spostarlo su di sé, andando alla ricerca dei “nostri valori”, può risultare fatale.

Di quali “valori occidentali” dovremmo parlare infatti?
Democrazia? Eguaglianza? Libertà di pensiero?

Rivendicare i valori della democrazia in paesi dove metà della popolazione non va più a votare, dove l’indifferente omogeneità della scelta politica non permette di immaginare nessuna alternativa, e dove l’influenza diretta del capitale privato sulla politica è sfacciata, suona imbarazzante.

Rivendicare i valori dell’eguaglianza in paesi in cui dinastie ereditarie di superricchi vanno in televisione a spiegare alla plebe che deve affrontare con coraggio le sfide del mercato sembra più una gag comica, che una convincente rivendicazione di valori comuni.

Rivendicare i valori della libertà di pensiero in paesi dove i media sono occupati militarmente dai detentori di capitale, facendovi da portavoce, e dove per poter parlare senza censure la gente si sposta su social media russi (sic!),ecco anche questa sembra più una presa per il culo che un argomento serio.

La semplice verità è che i “nostri valori”, quelli che saremmo chiamati tutti coraggiosamente a difendere, sono in effetti i valori depositati in banca dai maggiori stakeholders dei paesi occidentali, un’élite transnazionale, domiciliata in paradisi fiscali, disposta a fare a pezzi e vendere al miglior offerente qualsiasi cosa: storia, cultura, affetti, dignità, territori, persone, salute.

E noi, plebei spossessati e piccola borghesia affannata, siamo preallertati per una futura chiamata alle armi in loro difesa.

Questo significa forse che “dovremmo diventare come Russia e Cina”?
Questa è retorica spiccia, buona per un patriottismo da bar sport. Ovviamente non c’è una possibilità al mondo che questo succeda. Ogni paese e ogni popolo ha la sua traiettoria: l’Italia non sarà mai la Cina, la Germania non sarà mai la Russia, ecc. Agitare questo pericolo posticcio serve a dissimulare il semplice fatto che ad averci reso le colonie e i protettorati che siamo non sono né i russi né i cinesi.

Questo significa allora che “non abbiamo più valori da difendere”?
Nonostante tutto, neanche questo è vero.
Solo che la principale minaccia a quel che ancora abbiamo caro, alla cultura e alla salute, alle città e alle campagne, alle famiglie e alle comunità, all’amicizia e alla solidarietà, ecc. non marcia con gli stivali dell’Armata Rossa, e non sembra lo spietato imperatore Ming di Flash Gordon. No, quella minaccia ce l’abbiamo in casa e ci chiede di difendere impavidi il suo – non negoziabile – stile di vita.

Prof. Andrea Zhok

Illustrazione di copertina: Victoria Ivanova

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