La dissoluzione del linguaggio come strumento di pensiero
“Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus”
Parliamo ancora di linguaggio, perché le parole sono assai più reali e psicologicamente gravide di conseguenze, di quanto generalmente pensiamo.
Abbiamo scritto tempo su come sono cambiati i nomi dei partiti in Italia, passando da nomi abbastanza denotativi e indicanti una precisa ideologia politica a nomi fortemente connotativi e indicanti una generica ideologia esistenziale “mitologica”, all’interno, in quest’ultimo caso, di una dimensione smaccatamente pubblicitaria. Per inciso, questo salto linguistico ha un’altra sfumatura, per nulla secondaria. Se, infatti, un nome denotativo come Partito Comunista Italiano ammetteva almeno virtualmente un suo contrario ideologico di destra (ai tempi della prima repubblica il partito fascista che fu il Movimento Sociale Italiano, ad esempio), i moderni generici nomi di partito non ammettono termini contrari: non esiste il contrario di Italia Viva, perché nessuno si sognerebbe – almeno per il momento, mai porre limiti all’immaginazione perversa – di fondare Italia Morta o più ottimisticamente Italia Malata. Da un punto di vista semiotico, posto che ad esempio “bianco” e “nero” sono termini “contrari”, diventa il festival dei termini cosiddetti “contraddittori” (è un termine contraddittorio il “non-bianco” rispetto al “bianco”) e anche “sub-contrari” (quali sono il “non-bianco” e il “non-nero”). La parola chiave di questo universo linguistico è quindi l’allusione e le identità politiche diventano sempre più delle “non-identità”: è ovviamente più facile caratterizzare (negativamente) l’identità dell’avversario e opporvisi, che non caratterizzare la propria, cosa che richiederebbe quelle merci ormai rare che sono il ragionamento politico e la cultura. Una conseguenza di tutto ciò è una sorta di colonialismo ideologico: chiamarsi Italia Viva, Cinque Stelle, Liberi e Uguali, Forza Italia ecc., significa piantare una bandiera su un territorio ambito e costringere virtualmente tutti gli altri ad adattarsi a posizioni assai più scomode, a quegli ombrelloni lontano dal mare che potrebbero essere Italia Malata, i Tre Stelle, Prigionieri e Diversi, Abbasso Italia… Peraltro, per tragica ironia, molti di questi ultimi ipotetici nomi sarebbero assai più consistenti e vicini alla realtà del paese.
Ma il genio linguistico della politica moderna non si ferma qui. Prendiamo ad esempio il cambiamento di nome del Ministero della Sanità, che nel 2001 diventò il Ministero della Salute, cambiamento entrato di soppiatto nelle nostre teste come un trojan file senza che ci rendessimo conto della sua portata. Cosa vuol dire passare da Sanità a Salute? Vuol dire virtualmente estendere enormemente il potere di questo dicastero, che non si limita più ad amministrare la sanità essendo chiamato a occuparsi della nostra salute tout court. Vuol dire legittimare un’ingerenza enorme nella sfera individuale. Non è un caso che in quest’ultimo lungo anno pandemico il ministero della salute abbia svolto un ruolo cruciale nel controllo sociale, non limitandosi a meglio organizzare la complessa macchina della sanità come si sarebbe fatto fino almeno a una ventina di anni fa, ma dettando letteralmente un nuovo stile di vita proprio in nome della “Salute”. E il passo da questa “Salute” ai comitati di salute pubblica è più piccolo di quanto possa sembrare.
Che poi cosa sia questa “Salute” tutti lo dicono ma nessuno lo sa esattamente, una sorta di araba fenice. Teoricamente, la legge 317 del 3 agosto 2001 che diede vita al Ministero della Salute, si ispirò, piena di buone intenzioni, alla celebre definizione dell’OMS, per cui la salute è “una condizione non più di assenza di malattia ma di completo benessere fisico, mentale e sociale”. Quanto la nostra salute in quest’ultimo anno sia stata intesa anche come benessere mentale e sociale è sotto gli occhi di tutti. E, se ci pensiamo bene, è pure sotto gli occhi di tutti quanto il parlare di Salute anziché di Sanità non abbia fatto altro che, ironicamente, accelerare la decadenza del nostro sistema sanitario negli ultimi vent’anni. Insomma, ci troviamo un dicastero che da tempo si occupa moltissimo e intrusivamente della nostra salute e pochissimo di quei servizi sanitari – e sociali in senso ampio – che dovrebbero aiutarci a migliorarla.
I nomi dei partiti, che potremmo definire provvisoriamente pan-positivi, e i nomi come Ministero della Salute, fanno parte, peraltro, di un unico grande movimento linguistico psicologicamente regressivo e totalizzante in cui siamo tutti immersi, di cui altri esempi naturalmente abbondano e si sono moltiplicati dopo le prime pudiche innovazioni degli operatori ecologici, dei diversamente abili, e così via. Stiamo avviandoci verso un parlare senza sfumature, fatto di macro-categorie che non pestino i piedi a nessuno, come Salute, Pensiero, Benessere, ecc.; ma con già alla porta un mondo di emoticon e di simboli grafici come gli ormai celebri asterischi.
In fondo, a dirla tutta, stiamo andando verso una dissoluzione del linguaggio come strumento di pensiero.
Illustrazione di copertina: Pawel Jonca