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La fattoria dei sorci

Even with the best intentions of making heaven on earth
it only succeeds in making it a hell –
that hell which man alone prepares for his fellow-men.

(K. Popper)

C’è solo una parola per descrivere ciò che sta accadendo in questi giorni: cattiveria. Un’ondata di cattiveria che monta dai tempi della reclusione sanitaria e oggi prorompe contro chi, rifiutandosi di ricevere un’iniezione nel braccio, spezza la continuità di un comando che non tollera circostanze, identità, pensieri. Mai si era conosciuta una tale ferocia, mai come ora sembra accompagnarci «quell’essere senza occhi seduto al tavolo di fronte [che] se l’era bevuta con l’entusiasmo del fanatico e avrebbe snidato, denunciato e vaporizzato come una furia chiunque avesse» messo in dubbio l’aritmetica di regime (G. Orwell, 1984). Solo nelle ultime ore un famoso professore di medicina ha salutato l’idea «che senza green pass si sta chiusi in casa come sorci», un’altrettanto famosa veterinaria ha proposto di far pagare ai «no vax» (che non sono più i critici delle vaccinazioni, ma chiunque esprima dubbi su un determinato vaccino, per qualsiasi motivo) la degenza negli ospedali pubblici, un conduttore radiofonico ha suggerito che i fattorini sputino nel cibo destinato ai non vaccinati, l’ex presidente della Consob di aumentar loro le tasse del 5%, la direttrice generale di Confindustria di privarli del lavoro e dello stipendio. Sui social network alcuni operatori sanitari parlano di lager, camere a gas e altri metodi di tortura e soppressione fisica dei renitenti. È una gara al massacro, un vulcano di idee per rendere la vita degli altri – di chi cioè osa essere altro – un inferno.

Perché tanta cattiveria? Innanzitutto perché si tratta di una cattiveria istituzionale, che non si alimenta cioè da sé e che anzi morirebbe nel volgere di pochi giorni se sul suo fuoco non soffiassero proprio i custodi della decenza e della pace sociale. I grandi mezzi di informazione forgiano il bersaglio: a chi si defila va data la «caccia» come agli evasi o alle bestie, è un minorato da mettere sotto tutela o anche un «vigliacco» e un «disertore» che, chiosa disinvoltamente un altro professore, «a suo tempo veniva fucilato sul posto». In America «la pazienza di chi si è vaccinato è finita», ammonisce un giornale. Tracciato il solco, le autorità ci si infilano e lo ripassano prima con le parole e poi con gli atti. Secondo il nostro Presidente del Consiglio chi non si vaccina si ammala e muore e, ammalandosi, fa morire gli altri. Ma se invece chi si vaccina non muore, come può allora morire a causa di chi non lo fa? E se nei mesi di massima diffusione della profilassi quel morire è rimasto numericamente identico all’anno scorso, quando i vaccini neppure esistevano, non si sta semplificando un po’ troppo il messaggio? Non sarebbe più prudente sciogliere i dubbi espressi in Italia e all’estero prima di dare in pasto decine di milioni di persone al sospetto di omicidio colposo?

Con affermazioni di questo tenore si è accompagnata l’introduzione di una forma di apartheid estranea al nostro ordinamento e alla nostra cultura, tappa sinora ultima di un percorso inaugurato con l’esperimento del decreto Lorenzin, di subordinare il godimento di alcuni diritti alla ricezione di un farmaco, poi aggiornato con la sospensione dal lavoro e dal reddito di alcuni lavoratori resistenti alla pozione. Smaniosi di cacciare i sorci dalla casa comune i cittadini hanno accettato, anzi reclamato la demolizione di questo o quel tronco dell’edificio costituzionale eretto sui cadaveri degli antenati, resi ignari nella loro ferocia che le sue travi non ospitano le tane dei temuti roditori, ma sorreggono la vita e la dignità di tutti. Non paghi di decimare il già scarso e oberato personale sanitario da cui dipendono per curarsi, salutano l’olocausto di una lunga serie di attività economiche che danno prosperità e lavoro, i salvacondotti civili e penali a beneficio di pochi «più uguali degli altri», la reclusione stragiudiziale, la schedatura elettronica à la chinoise, la censura, la discriminazione, il mobbing, la purga accademica, la liquidazione del diritto alla riservatezza o, per i più frettolosi, dello «stato di diritto». È troppo facile prevedere che in questo incendio brucerà anche chi oggi lo ammira con gli occhi iniettati di sangue.

Politicamente, decisioni così enormi emanano da un partitone unico ammucchiato al governo come non se ne vedevano dal 1924. Parlare di democrazia rappresentativa quando tutte le forze politiche dichiarano guerra a un terzo della popolazione è roba da quarto mondo, una barzelletta che non fa neanche sorridere. Questa uniformità ha prodotto nei restanti due terzi l’illusione che l’obiettivo trascenda le bandiere ideologiche e che i sorci non meritino neanche di esprimersi nelle assemblee legislative. Da qui l’idea, imprevedibile come il Natale a dicembre, di escluderli anche dall’elettorato attivo e passivo. Si intravede un altro inedito, quello della società castale in cui milioni di paraiyar si aggirano invisibili e senza voce. Con una differenza però importante, che nella declinazione nostrana non valgono i diritti di genealogia ma le condotte e i pensieri. Lo stato di intoccabile può così estendersi a chiunque e in qualsiasi momento, secondo il canone di volta in volta fissato da chi imbocca gli ologrammi parlamentari. Il ghetto del futuro non ha muri, ma pareti mobili.

***

Molti si chiedono in queste ore come sia possibile che tutto ciò avvenga in una repubblica che si dice risorta dalle ceneri del totalitarismo, i cui giovani commemorano le persecuzioni del passato ripetendo «mai più» e si indignano rileggendo le cronache manzoniane della caccia all’untore. Che questa fiumana d’odio attraversi lo stesso Paese in cui si istituiscono commissioni speciali contro l’odio, che queste discriminazioni diventino legge mentre si impone il rispetto di ogni diversità e minoranza, che le semplificazioni più grossolane si esprimano nel nome della scienza e gli insulti più irripetibili sgorghino dalle labbra di chi predica la correttezza politica. Per capire queste contraddizioni bisogna capire il pensiero che le ha partorite, quella modernità di cui l’Occidente di oggi è il campione più sgangherato e caricaturale, e applicare al caso i suoi due cardini fondamentali: progressismo e laicismo.

Per il progressista la storia è una successione irreversibile di superamenti dove il peggio è sempre passato, il meglio di là da venire. Negli errori commessi dalle generazioni precedenti egli non cerca lezioni, ma conferme della propria superiorità, di ciò che ha saputo lasciarsi alle spalle. Quegli errori sono come il buio che prepara la luce, gli antecedenti di un racconto a lieto fine che va difeso non già dal rischio (impossibile, in premessa) che si ripetano, ma dai tentativi di mettere in discussione la loro funzione narrativa. Non si tratta più di fatti, ma di miti fondativi che bisogna cristallizzare nella loro iconicità tutti interi e senza le sfumature e i distinguo che li restituirebbero alla realtà, e quindi anche all’oggi. Per respingerli basta allora respingerne le icone: delle guerre di religione le religioni, ma non le guerre; delle persecuzioni razziali le razze, ma non le persecuzioni; dei regimi nazionalistici le nazioni, ma non i regimi; delle discriminazioni sessuali l’identità sessuale biologica, ma non le discriminazioni; del totalitarismo chi compra la grappa a Predappio, ma non chi rinnova certi metodi del suo cittadino più famoso.

Questo simbologismo portato all’estremo, in cui gli aggettivi storici diventano sostanza e i sostantivi si eclissano, è a sua volta uno dei sottoprodotti del «credo» laicista. Rifiutando il Cielo, i moderni hanno dato a Cesare anche ciò che è del Cielo e riversato nelle creazioni degli uomini il proprio bisogno di un aggancio che trascenda la finitezza delle creature. Questo sforzo così evidentemente assurdo e paradossale, in cui l’Apostolo vedeva un castigo inflitto agli empi (Rm 1,25), sfregia non solo la divinità ma anche gli idoli che la dovrebbero sostituire perché li ingessa in una dimensione assoluta a sé estranea e ne rende così impossibile il perfezionarsi. È difficile non osservare come l’atto taumaturgico con cui oggi si segna il discrimine tra perseguitanti e perseguitandi sia vissuto come un sacramento laico che purifica e spalanca le porte dell’huius mundi. Il virus è un tentatore diabolico che colpisce gli increduli e i gaudenti, la scienza che fino a ieri raccomandava il dubbio una manciata di certezze in cui «credere», gli scienziati predicatori di buoni costumi, i medici santi, martiri o eroi, i giornalisti annunciatori del verbo. Mancando una prospettiva oltre la morte, la vita biologica usurpa quella eterna e la sopravvivenza coincide con la salvezza dell’anima. I precetti di chi governa sono i comandamenti che colmano il bisogno orfano di un’etica oltremondana, sicché chi li critica non è nemico dell’ordine, ma del bene. In breve, il laicista ritualizza tutto, intende tutto come un rimando ai valori senza tempo e senza compromessi di cui si è privato. Non deve allora stupire che reagisca con rabbia a ogni tentativo di restituire i suoi simboli all’incertezza e alla complessità: è la rabbia di chi si vede privato di un senso.

Fissato l’orizzonte della trascendenza nell’immanenza, tutto si gioca qui e ora, non esiste un altrove dove si faranno i conti. La credenza laica e progressista di poter realizzare il «paradiso in terra» (Christopher Lasch) produce per simmetria il bisogno di preparare anche l’inferno per chi si sfila dalla marcia gloriosa. Per costoro non esiste un castigo abbastanza severo, vanno soppressi possibilmente soffrendo per fissare un esempio e sgomberare per sempre l’immaginata via delle sorti magnifiche. Questa escatologia anticipata è la premessa di tutti gli stermini consumati nel nome del progresso. Nel vangelo di Matteo è raffigurata dalla tentazione dei servi sciocchi di estirpare la zizzania prima della mietitura, rovinando così il raccolto, le piante buone con le piante cattive. Di lasciare solo un deserto dove si è tutti sorci, senza distinzioni.

Stefano Mantegazza

Il Pedante / Foto di copertina: David Ingraham

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