Società

La gaia morte delle società sazie e disperate

Nel 1985- sembra passata un’era geologica- il cardinale Giacomo Biffi definì Bologna, città di cui era arcivescovo, “sazia e disperata”. Quella frase gli fu rinfacciata per decenni dai cantori delle magnifiche sorti e progressive della nostra rugosa civilizzazione. Già all’epoca dell’osservazione del presule, Bologna, avvolgente e bellissima, era ai vertici del reddito pro-capite, in testa ai consumi voluttuari, ma al minimo della natalità. L’ Emilia batteva tristi primati di denatalità, accompagnati da suicidi doppi rispetto alla media nazionale. Tradussi in aggettivi i numeri, spiegò Biffi anni dopo. Per l’esperto pastore d’anime, una terra ricca, colta e civile, “sazia di beni, apparentemente piena di voglia di vivere e divertirsi, ma anche disperata perché non aveva voglia di trasmettere la vita e nemmeno di conservarla”.

Trentasei anni dopo, l’analisi di Biffi può essere estesa all’intero Occidente, forse meno sazio rispetto agli anni Ottanta del secolo XX, ma certo più disperato. E disperate davvero – cioè prive di speranza- sono le società nelle quali dilaga l’odio per la tradizione e la cupa fascinazione per la morte, coperta dall’ipocrisia della compassione, ovvero dall’eutanasia, “buona morte”, come se la fine della vita fosse una bella cosa. Viva la muerte era il motto della legione spagnola, l’ossimoro assoluto, giacché la morte non può vivere. Eppure, paradossalmente, l’urlo legionario era un canto alla vita, poiché esprimeva l’accettazione del sacrificio estremo per una causa, quella della patria spagnola.

Amore e morte, eros e thànatos è anche una coppia oppositiva della mitologia greca, ripresa da Sigmund Freud per esprimere il conflitto interiore tra le pulsioni di vita e di morte (todestriebe) all’interno della teorizzazione psicanalitica del “principio di piacere” (lustprinzip). Concretamente, la pulsione di morte si è impadronita dell’umanità occidentale dopo la morte di Dio, la sua drammatica insignificanza nell’esistenza dell’homo sapiens occidentalis. Un epifenomeno di questa pulsione di morte è l’orrore per la vecchiaia, la sofferenza, la decadenza fisica e biologica che accomuna le generazioni contemporanee. Mai davvero sazio – il consumo impone di rilanciare sempre più in alto il desiderio – ma sempre più disperato, l’uomo di quest’angolo di mondo scava la sua fossa senza saperlo; anzi con un senso di folle gaiezza intervallata, come in una pessima rapsodia, da conati di terrore, gli occhi sbarrati dalla consapevolezza del nulla simboleggiati dall’Urlo di Edvard Munch, il dipinto- icona del nichilismo moderno.

Chi scrive non è immune da queste malattie dell’anima, le infezioni della postmodernità, ma riesce a coglierne la drammaticità e la natura incapacitante. Forse perché la fede nella trascendenza non lo ha abbandonato, o più semplicemente per aver avuto un rapporto molto stretto con i nonni, che fa coltivare un anacronistico concetto reverenziale della vecchiaia. Per il fatto di avere vissuto per anni sotto lo stesso tetto con la nonna materna, non riconosciamo l’immagine sciropposa che il circo dell’intrattenimento e dello spettacolo offre della vecchiaia, una vernice edulcorata e falsa in cui i vecchi non sono mai veramente tali, stucchevoli imitazioni della giovinezza, della salute, del desiderio. Il Coronavirus ha smascherato quest’ultima, devastante ipocrisia.

Cicerone, nell’opera filosofica De Senectute, scrisse che i vecchi tendono ad essere permalosi, poiché pensano di essere disprezzati e temono che ci si prenda gioco di loro. Senza dubbio anche nell’antichità c’era chi disprezzava o scherniva i vecchi; tuttavia, gli anziani erano rispettati come fonti di saggezza, inseriti nella vita pubblica in molte magistrature e ascoltati consiglieri dei governanti, oltreché di figli e nipoti. Nel nostro tempo, il disprezzo e lo scherno pubblico nei confronti dei vecchi sono vietati, ma è una insopportabile ipocrisia farisaica che nasconde un ripudio, un orrore della “terza età” (ridicolo eufemismo quanto il miserabile “diversamente giovani” politicamente corretto) inconcepibile ai tempi di Cicerone e anche nella nostra infanzia e adolescenza. Non parliamo dell’abbandono individuale, sempre esistito in ogni tempo, così come ci sono sempre stati genitori snaturati, ma del ripudio collettivo, istituzionale, i cui simboli sono la reclusione forzata, il nascondimento, l’allontanamento dalla vista dei vecchi in ghetti, magazzini di attesa della demolizione finale, come se fossero ferraglia umana inservibile, tra pubblica irrilevanza e privata solitudine. Naturalmente tale clausura, in tempi tanto ipocriti, viene ricoperta di gesti artificiosi, inutili placebo e baccano emotivo alla melassa.

Dietro questo disprezzo per la vecchiaia c’è, ovviamente, l’invincibile paura della morte, cancrena delle società disperate (senza fede e speranza in un aldilà) bisognose di nascondere i segni più evidenti della prossimità della fine, sino alla rimozione pubblica. Poi la distruzione tenace dell’istituto familiare, logica conseguenza dell’odio per la tradizione cresciuto come una muffa nelle società disperate. E’ stata cancellata dalla coscienza la concezione delle generazioni come anelli uniti in una catena, capaci di sostenersi reciprocamente. Per aiutare gli anziani a far fronte alle sofferenze della loro età, le società governate dalla tradizione contavano su una comunità familiare che se ne prendeva cura, asciugava le loro lacrime e insieme ne ascoltava la voce, certa di ricevere uguale considerazione nel giro della vita.

Gli uomini e le donne contemporanee si sono convinti che le loro esistenze siano più piene se rompono le catene della tradizione e diventano atomi alla deriva senza vincoli e legami. Così, la nostra maledetta generazione è diventata indipendente dalla famiglia – considerata il luogo che reprime il libero sviluppo della personalità- per dissolversi in monadi provvisoriamente soddisfatte di non dover più portare il peso dei vecchi, parcheggiati in anticamere della morte graziosamente chiamate “residenze sanitarie assistite”, che in passato si chiamavano sinceramente ospizi. L’epidemia li ha trasformati in trappole per sotto uomini ridotti alla condizione di topi incatenati. Affinché le nuove generazioni possano tacitare quel che rimane della coscienza per declinare gli arcaici obblighi del sangue e dormire sonni tranquilli in attesa che la campana suoni anche per loro, si è imposta una visione della vecchiaia come stagione della vita eccedente, superflua. Una fase odiosa in cui fa molto freddo, nella quale le passioni che colorano la vita bulimica delle società disperate svaniscono e i malanni si moltiplicano in giornate amare, un accumulo ridondante da accorciare, soprattutto perché la solitudine a cui condanniamo i vecchi rende più insopportabili i giorni e i malanni.

Perché trionfasse quest’idea della vecchiaia come tempo eccedente (assai gradita all’economia, al sistema previdenziale, sanitario e assicurativo privato e pubblico), occorreva cancellare dai cuori la nozione cristiana e tradizionale della vita come dramma nella quale la scena finale è la più importante, poiché conferisce significato a tutte le precedenti. Una volta trasformata definitivamente la vecchiaia in inutile rappresentazione del declino, è più facile portare il disprezzo per i vecchi (e l’odio di sé) sino al limite, per quanto opportunamente cosparso di compassione. Poiché la vecchiaia non può essere curata con i farmaci, la stessa medicina si deve incaricare di risolvere il problema, affinché non rompano le scatole. Infatti, oltre alla “residenza assistita “, la nostra generazione offre ai vecchi e quindi a se stessa un nuovo diritto, quello alla morte assistita, l’eutanasia.

Diciamolo francamente, l’Occidente ama la morte: tutte le civiltà terminali adorano la morte. In primo luogo, cancellano la parola, poi espellono la morte dal paesaggio, spostando e rimpicciolendo quel che resta del cimitero, che la cultura tradizionale chiamava camposanto. Compiuto il gesto della rimozione, le civilizzazioni esangui la abbracciano, purché sia ricoperta da molti strati di cosmetici. Da qualche parte nel mondo vive un uomo che la semplificazione giornalistica chiama Dottor Morte, un infelice o un maniaco (non può essere altro) che ha passato decenni a inventare dispositivi per il suicidio indolore, messi rigorosamente alla prova sugli altri.

Il suo ultimo colpo di genio è una sorta di capsula dalla linea futurista dove il morituro viene sistemato, investito da un dolce gas venefico e muore ascoltando musica. Il sarcofago musicale è solo l’ultima trovata della promozione al suicidio del Dottor Morte, un medico radiato dall’albo perché considerato un pericolo per la salute pubblica. Qualcuno ancora prendeva sul serio il giuramento di Ippocrate. Va notato che la sua battaglia non è a favore dell’eutanasia, ma di un nuovo diritto, il suicidio razionale (si può tranquillamente omettere l’aggettivo)la sua invenzione è la garanzia di una morte glamour: la sperimenterà in Svizzera su un certo numero di volontari.

Quest’uomo non è isolato, ma un pioniere dell’ideologia necrofila che sta permeando il cuore affaticato dell’Europa-Obitorio. La sua proposta, musica per le orecchie del Progresso, è che la morte sia un “diritto umano universale”, non solo un privilegio medico per chi è ammalato. Prima ci hanno convinto che l’eutanasia è un sollievo per casi di estrema sofferenza e malattia irreversibile. Le argomentazioni “sentimentali”, compassionevoli, più passa il tempo, più si rivelano espedienti per far passare l’idea che interrompere la vita sia un atto normale. Una società suicida e omicida. In Svizzera si può già morire a richiesta: questa sì che è civiltà! Tre sole eccezioni, la minore età, l’incapacità di discernimento e la malattia mentale. Supereremo anche questo, in nome della morte, il “vecchio capitano” di Baudelaire.

In Germania è stata organizzata una gradevole mostra sul suicidio, ospitata nella location più appropriata, Il Museo della Cultura Sepolcrale. Immaginiamo che i curatori vivano in un perpetuo Halloween e difendano le loro campagne di agitazione mortuaria con lo scudo intellettuale dell’arte. Meraviglie dell’Europa che impone misure restrittive contro il fumo, ma accoglie e promuove con entusiasmo il turismo della morte. Pochi anni fa in Svizzera raccontarono la storia di Jacqueline, una donna sana di 77 anni che aveva posto una data limite alla sua vita: nel gennaio 2020 si sarebbe recata nella linda clinica elvetica prescelta per suicidarsi con l’aiuto di un’associazione specializzata. Giunta al giorno fatale, vinse la vita e l’attivista pro morte decise di rinviare il suicidio. Lo posticipò una e un’altra volta, sino ad accantonare il proposito. Tuttavia, il suo caso fu utilizzato come argomento dai difensori della cosiddetta “interruzione volontaria della vecchiaia “(sinistra sorella dell’Interruzione Volontaria di Gravidanza). Sono attivi anche in Italia con le associazioni vicine al Partito Radicale – premiata agenzia funebre – e certo ritengono interessante la capsula musicale del Dottor Morte.

Le ragioni della signora Jacqueline sono uno sbalorditivo riassunto di come è ridotta l’umanità aperta, liberata e progressista del nostro spicchio di mondo: “Non voglio fare l’amore con un tizio dalla pancia enorme e con un petto più grande del mio”. Corrosione dell’anima più grave delle infermità del corpo. Inizia con la deificazione di se stessi, da cui si passa alla cieca fiducia nell’Ultima Dea, la Scienza. Preso atto che nemmeno lei sa eliminare la malattia e la sofferenza, resa intollerabile la vita dai parametri del consumo, della prestazione e dell’efficienza; persa la possibilità del controllo totale sull’esistenza, non ci resta che eliminare noi stessi, la nostra vita destituita di valore, un rifiuto in più da conferire al compostaggio. In questo senso paradossale e sinistro, la morte diventa davvero “l’ultimo viaggio”, tra musiche, incensi, colori tenui, esperti tanatologi, boia con camici in tinta. La gaia morte dei sazi e dei disperati.

Roberto Pecchioli

EreticaMente / Illustrazione di copertina: Owen Gent

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