La meritocrazia sanitaria
L’altro giorno a Piazza Pulita (La7) Pierluigi Bersani, ex segretario del Partito Democratico ed ex ministro della Repubblica, ha affermato:
“Finché c’è posto per curare, bene. Se non ci fosse più posto, non sta fuori un malato di tumore o di leucemia perché qualcuno dice che il vaccino è roba da ridere. Questo bisogna che lo diciamo.”
L’affermazione di Bersani non è in verità niente di nuovo in questo tetro periodo della storia repubblicana, avendo avuto più volte occasione di udire minacce o raccomandazioni circa l’appropriatezza dell’idea che un cittadino che abbia scelto di non sottoporsi all’attuale vaccinazione anti-Covid non meriti di essere curato, o solo in subordine a tutti gli altri. Ma per quanto non nuova, e per quanto tinteggiata retoricamente con un contrasto ben scelto – malato oncologico vs. l’ignobile Franti che ride del vaccino – questa affermazione, pronunciata con tono torvo e ammonitore da uno dei leader storici di ciò che una volta si diceva “sinistra” rappresenta un salto di qualità. Se qualcuno avesse avuto bisogno di conferma del mutamento antropologico ed etico avvenuto nella “sinistra” in era neoliberale, questa affermazione suona come la sua conferma tombale.
Ci tratteniamo dal far osservare all’on. Bersani che uno che ha sostenuto senza eccezioni tutti i governi che dal 2012 al 2018 hanno tagliato 37 miliardi di finanziamento al SSN, di fronte alla prospettiva di dover togliere le cure ad un concittadino per esaurimento delle risorse ospedaliere, invece che impancarsi a giudice dovrebbe semplicemente chiedere perdono con gli occhi bassi. Né ci soffermeremo sulla paurosa gestione delle cure del suo compagno di partito ministro della Sanità, che ci ha portato alla catastrofe odierna, di cui cerca in modo vile e ridicolo di scaricare la responsabilità su quel residuo 10% di renitenti alla vaccinazione.
Lasciamo questi ed altri problemi sullo sfondo e cerchiamo di concentrarci sul punto cruciale del ragionamento, che, al netto della questione specifica delle vaccinazioni anti-Covid, può essere riassunto in questi termini:
“L’accesso alle cure del sistema sanitario è una questione di merito personale. Chi non fa il possibile per evitare di dover ricorrere alle cure non merita di essere curato, o lo merita in modo minore rispetto a chi ha agito in modo da minimizzare i rischi.”
Questo ragionamento è interessante perché rappresenta una negazione frontale dello spirito che ha informato il diritto alla salute a partire dall’art. 32 della Costituzione. L’idea di un servizio sanitario universalistico è radicato in una visione semplice e profonda. Si tratta dell’idea che nessun individuo sceglie volontariamente di ammalarsi o morire, e che i percorsi di vita degli individui, con la relativa libertà, li può portare in varie forme e momenti della vita ad assumere rischi e ad aver bisogno di cure, e che il modo umano e comunitario di affrontare questi rischi sta nell’assicurare a tutti, indiscriminatamente, l’accesso alla cure stesse (finanziate peraltro con la tassazione collettiva). Questa visione assicura di principio insieme la massima libertà personale e la massima solidarietà collettiva. Lo Stato ha il compito di approntare un servizio all’altezza del compito, non certo di fornire pagelle sulla gestione del rischio personale nel corso della propria esistenza.
Ma questo modello universalistico, che è anche incidentalmente molto più efficiente in rapporto ai costi di qualunque modello privatistico, presuppone un’idea etica importante, ovvero l’idea che una comunità di soggetti liberi possano sviluppare ed esplorare le proprie scelte di vita mettendo in comune i costi e i benefici, su un piano di eguaglianza.
È proprio quest’idea di fondo ad essere stata erosa e demolita da tempo dall’impianto neoliberale, innescando l’idea che invece la salute debba essere trattata come una merce tra le altre, su base individuale.
E tuttavia, nonostante tale erosione, fino all’ultimo anno nessuno aveva osato attaccare in maniera frontale il concetto di universalismo della cura subordinandolo ad una valutazione di merito sulle condotte personali.
I nostri ospedali hanno sempre curato drogati e tentati suicidi, per quanto con tutta evidenza né gli uni né gli altri avessero fatto quanto era nelle proprie possibilità per non aver bisogno delle cure. Il piano della cura e il piano del giudizio sulla condotta erano separati e li si voleva, giustamente, separati. Questo perché la strada alternativa, la strada del “merito personale” come accesso privilegiato alla cura, è una strada che immediatamente disintegra senza rimedio ogni sistema sanitario pubblico (e ogni spirito solidaristico). Questo per una ragione semplice: nel momento in cui ponessimo un sistema di giudizi morali preliminari per definire gerarchie d’accesso alle cure, il giudizio morale sulla condotta individuale diviene fonte di potenziali lesioni fisiche o potenziali condanne a morte. Il salto in direzione del più feroce degli “stati etici” è immediato, e chi non vuole sottostarvi ha a disposizione come unica alternativa l’accesso privato alle cure.
In altri termini, una volta che passa il principio della “cura secondo merito” le opzioni in campo restano solo due: o uno “stato etico” che giudica moralmente ogni aspetto dei comportamenti individuali per redigere le proprie gerarchie di merito (e di accesso alle cure pubbliche), o uno stato assente che lascia a ciascuno l’onere di cavarsela con le proprie risorse private.
Basta una breve riflessione che comprendere in quale direzione può condurre l’idea di una separazione “per merito” della dignità d’accesso alle cure sanitarie.
Lo sportivo infortunato che arriva in ospedale con una frattura scomposta è andato a cercarsela; dopo tutto poteva starsene a casa a guardare la TV.
Ma, un momento, forse è piuttosto il teledipendente sovrappeso ad essere particolarmente biasimevole per aver compromesso in quel modo il proprio apparato cardiocircolatorio?
E che dire del manager con la pressione perennemente alta per l’elevato stress? Non poteva starsene quieto e fare il salumiere?
Beninteso, anche il salumiere, con quella sua dieta ricca di proteine e grassi animali, cosa gli costava nutrirsi di bambù e bacche di Goji, invece di intasarsi le arterie?
E l’operaio che rompe la monotonia di giornate lavorative pesanti e sempre uguali alzando il gomito alla sera? Merita lui che la collettività, sobria e virtuosa, utilizzi le proprie risorse per prendersi cura del suo fegato?
E chi si è contagiato sessualmente di AIDS o Epatite B, mica glielo aveva ordinato il dottore di andare in giro a divertirsi!
E che dire di chiunque si ammali di una malattia per cui esiste un vaccino? Perché mai non se li è fatti tutti invece di venire ora a chiedere comprensione e aiuto? Però, un momento, e se facendoseli tutti finisse per innescare una malattia autoimmune? Anche in questo caso si potrebbe dire che se l’è cercata lui: bastava che invece di inocularsi scegliesse di fare vita più ritirata e meno esposta, no?
Ecc. ecc.
La semplice verità è che nel momento in cui si prende questa strada si consegna ad un’autorità morale arbitraria (una maggioranza protempore?) un diritto di irreggimentazione e indirizzo capillare della vita altrui, secondo criteri che possono essere espansi o ritratti in mille direzioni.
Il fatto che all’on. Bersani oggi non piacciano i No Vax e voglia lasciarli nelle retrovie delle cure pubbliche è un’indicazione interessante delle gerarchie morali dell’on. Bersani (e dello sfacelo della sinistra). Che, come lui ritiene, ciò debba diventare un criterio di giudizio pubblico è forse qualcosa che prima di essere proferita in televisione avrebbe meritato qualche riflessione in più. D’altro canto fu una bella fortuna per il nostro onorevole che gli argomenti che lui oggi ci propone non si fossero imposti dieci anni fa, perché nello stesso spirito qualcuno avrebbe potuto sindacare del suo merito di accedere alle cure per l’ictus che lo colpì nel 2014, visti i suoi noti trascorsi di accanito fumatore di sigari.
Ma a prescindere dal nostro onorevole, è il sistema mediatico che a giorni alterni ci racconta «quanto costano all’erario pubblico i non vaccinati» a rappresentare una vergogna inqualificabile. Giornalisti che si presentano come “disfacitori di ogni ingiustizia e raddrizzatori di torti” mentre danno solo fiato ai propri pregiudizi, lavorando per la distruzione finale del servizio sanitario pubblico.
Il problema che purtroppo qui sfugge completamente, essendo stato da tempo introiettato, è come una volta che si apra la strada alla creazione di gerarchie di merito per l’accesso a servizi pubblici, ogni patto sociale tenda ad infrangersi e finisca per emergere una qualche riedizione del bellum omnium contra omnes, in cui la vita dell’uomo tenderà fatalmente e sempre di più a divenire “solitary, poor, nasty, brutish, and short” (Hobbes, Leviathan, i. xiii. 9).
Illustrazione di copertina: Chiara Ghigliazza