La passione per la democrazia e l’oscurità incombente
Appartengo a una generazione precocemente invecchiata, già superata e quasi rottamata dalla storia. Eravamo cresciuti con il culto della democrazia, ci avevano educato a un rispetto quasi religioso della democrazia. La democrazia non era per noi solo una forma di governo, un sistema istituzionale: era un modo di vivere, era un modo attraverso cui riappropriarsi della propria vita, della storia. Era il modo in cui questioni di giustizia potevano entrare nella storia, divenire diritti. Democrazia significava non permettere a nessuno di decidere della nostra vita, di sottrarci il futuro e la scelta riguardo al nostro futuro. E tutto questo è già passato.
Passata è anche la voglia di fare analisi, di discutere, polemizzare. A che serve, di fronte a questa oscurità incombente?
Dopo la formazione di questo governo, in un primo momento ho provato rabbia, che emerge sempre quando ti sembra che altri ti rubino la tua vita e quella dei tuoi figli, dei tuoi amici, quando senti che ti stanno sottraendo il tuo essere soggetto, rendendoti un mero oggetto. Ma subito dopo si è fatto strada un senso di inutilità del discutere, del polemizzare, del leggere testi di politica, storia, filosofia politica, come inghiottiti da un’oscurità incombente che si stende sulle nostre vite e ci priva di ciò che ci è più proprio.
Perché la democrazia non è il governo dei migliori. È l’idea di un popolo che può scegliere di farsi del male, e che porta la responsabilità dei suoi stessi errori, imparando e correggendosi.
E io ho ora sempre questa sensazione: che ci sia stata sottratta la possibilità di sbagliare, di imparare dagli errori, e così di crescere, migliorare. La democrazia è un telos, un movimento, una struttura di autoeducazione e autoumanizzazione. Questo lo abbiamo perso di vista.
L’illuminismo, a cui eravamo stati educati, era l’idea di superare la minorità, che dobbiamo imputare a noi stessi, diceva Kant. Ciò che sta succedendo lo sto vivendo come una riduzione allo stato di minorità, come il farsi largo e l’affermarsi dell’idea che dobbiamo accettare, per il nostro bene, di vivere sotto tutela.
Media, giornaloni, tv a reti unificate stanno diffondendo l’idea che essere minori è bello, fa bene al paese, che l’idea di essere soggetti è una sciocchezza. Per questo la sto vivendo come la fine dell’illuminismo, dell’Illuminismo che amavo, di tutto ciò che mi è stato insegnato. Come la fine di un’epoca. Un’epoca che amavo ma da cui mi rendo conto sto già iniziando a fare il lutto, perché finita, chiusa, abbandonata, insieme a tutte le sue promesse.
Forse sono solo sensazioni di uno che invecchia e che rimane ancorato a vecchi miti, incapace di tenere il passo del nuovo mondo. Forse sono solo sciocchezze. Ma una cosa so: con questi ultimi eventi qualcosa è morto, in me: la passione per la democrazia, è morta la democrazia in me.
Non temo tanto le scelte che questo governo farà. Temo anche quelle, ma qui possiamo mettere da parte questo punto. Qui è diverso. Anche se facesse cose ottime, c’è una cosa che sta già facendo: sta desertificando la sfera pubblica, la voglia di partecipare, agire collettivamente.
Io non mi sento più cittadino. Sono un mero suddito, un incapace, che affida ad altri la sua vita, e a cui viene chiesto di accettare di essere un incapace, incapace di prendere parte alle decisioni che lo riguardano.
Non era questo il patto hobbesiano attraverso cui si alienava la propria sovranità a un Leviatano? Chi siamo dopo questa svolta? Cosa stiamo diventando? Dove stiamo andando? E ci vogliamo andare davvero? Il nuovo idolo dei miei amici liberali è diventato Hobbes?
Perché è delle nostre vite che stiamo parlando, del nostro essere ancora cittadini liberi o sudditi, soggetti della storia o meri oggetti.
L’illuminismo si è convertito di nuovo nel mito, ed è il mito che sta vincendo, è questa oscurità, che incombe sulle nostre vite, a stare dilagando.
Illustrazione di copertina: Sebastien Plassard