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La posta in gioco sul referendum mortuario

Non bastavano la legge Zan, lo ius soli, la questione migranti a rendere minaccioso settembre: arriva ora sull’Italia e sul governo Draghi, con oltre mezzo milione di firme e i persuasori di morte mobilitati, il referendum sul suicidio assistito. Ancora una volta il paese sarà spaccato, i cattolici messi all’angolo, si aprirà un altro conflitto a fuoco tra conservatori e progressisti. Le antiche capacità di mediazione, oblio e compromesso degli italo-cattolici sono sempre più boccheggianti; si procede a strappi e amnesie alternate. Ma a settembre i nodi verranno al pettine e non potremo fingerci calvi per non accapigliarci. Toccherà pronunciarsi sul tema.

Non mancano i tentativi di depistare e intortare: non si tratta di eutanasia, dicono per rassicurare i titubanti e i contrari. Certo, è peggio, si tratta di suicidio assistito. Il quesito referendario concerne infatti se considerare o no reato l’aiuto dato a chi invoca di porre fine alla sua vita. Il suicidio assistito prescinde dalla condizione terminale e irreversibile del malato; riguarda l’aiuto a chi vuole morire perché la vita gli è insopportabile.

La volontà individuale, l’autodecisione sovrana, prevale sull’idea che la vita sia un bene non negoziabile, di cui non dispone in assoluto neanche il suo titolare. L’Italia cattolica, popolare e mediterranea nel suo affannoso inseguimento del Nord europeo, già protestante e “moderno”, dovrebbe arrendersi al nichilismo libertario e individualista che non riconosce alcuna sacralità alla vita ma solo al sovranismo illimitato dell’io, signore di se stesso.

La tecnica di persuasione è collaudata e si ripete implacabile: si prende un caso estremo di sofferenza o di vita vegetativa, lo si carica di pathos, si spargono immagini e racconti di sofferenza e sulla base emotiva di quell’esperienza singolare ed estrema, si deduce la bontà, il diritto, l’ineluttabilità che la richiesta di morte diventi legge, in ogni caso.

Sul tema così delicato non ho certezze assolute, non si decide con l’accetta; reclamo il diritto estremo all’incertezza e non sono sicuro da che parte stia veramente l’umanità. Può essere inaccettabile l’accanimento terapeutico quando si tratta davvero di accanimento e quando riguarda soggetti terminali ridotti ormai a oggetti, quasi inanimati. È sul quasi che bisogna però prima accertarsi. Ma la legge, lo Stato, la sanità, la società non possono avere come priorità che la salvaguardia della vita.

Il singolo può decidere di farla finita ma senza pretendere l’avallo e la complicità della legge, dello Stato, della Chiesa, della famiglia e della società. Chi compie questi atti, e chi aiuta a compierli, se ne assuma tutta la responsabilità morale, civile e penale. Un giudice giusto e misericordioso deciderà se infliggere o meno una pena, simbolica o effettiva (per il defunto la questione non si pone). Ma è bene che la legge non preveda l’aiuto al suicidio.

La pratica del suicidio assistito può poi favorire speculazioni, traffico d’espianti, cliniche “exit” per l’industria della morte agevolata, e può facilitare i suicidi in coloro che sono depressi in una fase della vita, ma possono poi superare il loro stato depressivo.

Altra questione è tenere in vita artificialmente una persona ormai terminale e sofferente. Il filosofo spiritualista Giovanni Reale sosteneva che non si può essere ostaggi di una macchina perché non di sacralità della vita si tratta, egli dice, ma di sacralità della tecnica. A prima vista è giusto, ma quante persone, malati non terminali, sono tenute in vita artificialmente da una macchina o da una terapia, dunque dalla tecnica? Quante vite sono legate alla dialisi, al polmone o al cuore artificiale, o sono appese a una pasticca, a un pacemaker, a un defibrillatore, a un’incubatrice, alla chemioterapia; sono tutte esistenze tenute in vita artificialmente, espedienti della tecnica. Fino a che punto la tecnica serve alla vita e da che punto ne diventa padrona?

Non abbiamo la bacchetta magica e ideologica per decidere qual è il confine della vita e quando sorge il diritto alla dignità e alla pietà del morire. Non solo i cristiani ma anche gli stoici, che pure ammettevano il suicidio, dicevano che la vita è milizia e non si può disertare. Ci è stata assegnata.

Invece si va configurando il diritto a morire quando vivere non ci piace, quando siamo depressi o stanchi, fino al diritto a staccare la spina quando un’esistenza è di peso per gli altri o per il sistema sanitario. O ancora l’eutanasia per malati terminali abbandonati, affinché si possano utilizzare i loro organi. Se si sposa un soggettivismo assoluto, autonomo e sovrano, tutto è possibile.

A questo punto non è meglio lasciare al morituro, ai famigliari e ai medici, di assumersi la responsabilità morale e legale della scelta, con tutte le conseguenze, mitigate dalla pietas che si conviene in casi tragici come questi? Perché pretendere di essere muniti pure dei conforti legali, morali, sanitari e religiosi, una specie di black pass per accedere alla libera morte?

Torniamo alle esperienze di ciascuno di noi: quanti casi di eutanasia e di suicidio assistito passano inosservati e sono risolti senza la tragica e plateale risonanza dei media? Casi di personaggi famosi, scrittori, giornalisti… Quante spine vengono staccate in silenzio, quante macchine cessano in sordina di tenere in vita esistenze ormai spente? Il lume del ricordo e il velo dell’oblio si accavallano nella memoria di ciascuno di noi. È aberrante che si voglia lo Stato e la società complici, stabilendo per legge la liceità di suicidarsi.

La posta in gioco col referendum in realtà è la crociata ideologica contro la sacralità della vita. Riconosce Paolo Flores d’Arcais su MicroMega che questo referendum serve a sancire “l’avvenuta secolarizzazione della società italiana in modo perfino più clamoroso dei referendum su divorzio e sull’aborto”. È questa ideologia radicale e progressista che si vuole sancire a norma di legge: non c’è Dio, non ci sono santi, non c’è comunità, non c’è famiglia, non c’è diritto/dovere alla vita: c’è solo l’Io, arbitro assoluto di se stesso.

Marcello Veneziani

Illustrazione di copertina: Carlo Giambarresi

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