Attualità,  Politica

La spallata

L’elezione di Mario Draghi alla Presidenza della Repubblica sancirebbe in Italia un passaggio ad un presidenzialismo de facto senza legittimazione popolare (si potrebbe usare un’altra definizione politica per questa fattispecie). Il progetto, piuttosto trasparente e supportato da autorevoli testate giornalistiche, è quello di una Presidenza della Repubblica che di fatto sceglie il proprio successore alla Presidenza del Consiglio nel novero dei propri portavoce o plenipotenziari. E se le prossime elezioni non porteranno ad uno sconvolgimento rispetto alle forze attualmente in parlamento, questo modello potrà vedersi riconfermato anche per la prossima legislatura.

È utile vedere questo passaggio alla luce di quanto sta accadendo negli altri principali paesi europei. 

In Francia Macron è dato per favorito alle prossime elezioni presidenziali, per una riconferma. Come in Italia per Draghi, anche in Francia l’apparato mediatico mainstream ne sostiene la candidatura, per quanto in Francia un’opposizione sostanziale esista ancora e sia battagliera. 

Macron è uomo di fiducia della finanza internazionale (ex Rothschild), così come lo è naturalmente Mario Draghi (ex Goldman Sachs). Nel frattempo in Germania a capo del partito di maggioranza, successore di Angela Merkel, troviamo un altro rampollo del medesimo lignaggio: Friedrich Merz (ex Black Rock). 

Ora, sapevamo da tempo che l’Unione Europea è un organismo di carattere eminentemente tecnocratico, visto lo strapotere della Commissione Europea (non eletta) rispetto al Parlamento, e visto che il principale braccio operativo è la Banca Centrale, che è sempre nelle mani di un tecnocrate (oggi Christine Lagarde, ex Direttore Generale dell’FMI). 

Se uniamo questo quadro alla rapidissima compressione dei paradigmi democratici avvenuta in questi mesi in tutta Europa (in verità, in tutti i paesi militarmente alleati degli USA), forse sarebbe ora che chi ha ancora qualche aspirazione democratica cominci a preoccuparsi. 

Come ripetuto più volte, se mesi di manifestazioni di centinaia di migliaia di persone (decine di milioni in Europa) possono venir messe sotto il tappeto o screditate mediaticamente, accusando i manifestanti di generica “irrazionalità”, limitando il diritto di manifestazione, o direttamente reprimendolo fisicamente, è sciocco credere che quando il benpensante di turno alzerà la manina per chiedere il rispetto dei propri diritti (sul lavoro, sulle pensioni, ecc.) riceverà diversa attenzione (come dimostra la totale inanità dello sciopero della CGIL del 16 dicembre).

Da tempo, ed oggi siamo in una fase di accelerazione decisiva, il crinale politico fondamentale non si trova più tra destra e sinistra, ma sussiste in modo trasversale ad entrambe, tra istanze della democrazia reale e della tecnocrazia (prevalentemente finanziaria).

L’attuale fase ha tutta l’apparenza di un attacco decisivo al potere politico, che dev’essere spogliato dell’ultima residua parvenza di rappresentanza democratica. 

Nella scia delle conseguenze della crisi del 2007-8 in molti paesi si era avuta una reazione di rigetto nei confronti di una tecnocrazia finanziaria capace di distruggere le economie reali dei paesi, senza pagare pegno. 

Quella reazione, stigmatizzata dai soliti media a gettone come “populista” o “sovranista”, continua a covare sotto la cenere, in quanto le condizioni di degrado economico e sociale che l’hanno suscitata rimangono precisamente quelle che erano. 

Oggi, siamo alla soglia di un’ulteriore crisi di cui ci sono tutte le avvisaglie (dalla crisi energetica, al mai risolto problema dei crediti deteriorati, all’eccesso di liquidità nel sistema – generato in questi anni per tenere in vita l’economia reale senza intaccare il capitale finanziario). 

Di fronte a quest’onda, che proietta da tempo la sua ombra all’orizzonte, l’impressione è che questa volta la tecnocrazia finanziaria intenda agire d’anticipo, garantendosi direttamente l’accesso alle leve dell’unico potere che, in linea di principio, potrebbe porle qualche limite o problema, ovvero lo stato democratico. 

La rappresentanza democratica degli stati è da tempo minimale, a causa di processi di erosione della rappresentatività dal basso (soglie di sbarramento, maggioritari, ecc.) e a causa del predominio degli interessi del capitale nella voci dell’apparato mediatico. 

Tuttavia le esplosioni “populiste” degli anni scorsi hanno rappresentato un fattore di rischio e turbativa che potrebbe esacerbarsi in presenza di un ulteriore aggravio della situazione, e l’impressione è che questa volta si voglia dare una spallata decisiva, “mettendo il sistema in sicurezza” in anticipo, creando condizioni che rendano strutturalmente impossibile agli interessi dal basso di farsi ascoltare e rappresentare. A tempo indeterminato.

Un’ultima notazione. 

Di fronte a questo quadro so bene che c’è chi riterrà di sentire odore di “complottismo”. 

Ciò che mi sento in dovere di replicare è questo. 

“Complottismo” in senso deteriore è ogni congettura che o non presenta adeguate motivazioni perché un certo “progetto” venga messo in campo, o non presenta in modo credibile la capacità degli attori in causa di produrre e implementare un certo “progetto” (“piano”, “complotto”). 

Ma in questo caso credo che sia abbastanza chiaro che abbiamo sia l’interesse, sia la capacità. 

Più nello specifico, è importante capire che i mostruosi livelli di concentrazione a cui è arrivato il capitale finanziario in questi ultimi decenni rendono tale sfera l’unica effettivamente in grado di concordare e gestire progetti con un carattere efficacemente transnazionale. 

Cullarsi nell’idea che niente del genere può accadere perché niente del genere è mai accaduto prima (beh, diciamo non esattamente in questa forma), questa è appunto solo una consolazione che aiuta a distrarsi, a limitare lo stress, magari a ingraziarsi protempore il potere mettendosi dalla parte di chi non crea problemi; ma è anche un atteggiamento che può risultare storicamente fatale. 

Prof. Andrea Zhok

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Illustrazione di copertina: Doug Chayka

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