La vocazione totalitaria dei sostenitori del Ddl Zan
“Quando tutti pensano nello stesso modo, nessuno pensa davvero”
Così il celebre giornalista Walter Lippmann, nel suo “The stakes of diplomacy”, ha ricordato che la libertà di pensiero presuppone la diversità del pensiero, così che non si è veramente né liberi né pensanti quando tutti si adeguano al medesimo tipo di pensiero. Quella che sembra una mera teoria astratta, anche se elaborata da uno dei più noti giornalisti della storia, è invece amarissima concretezza, come hanno comprovato i differenti regimi totalitari che si sono succeduti nel corso della storia più recente del Novecento, in cui una ortodossia ufficiale di Stato, preparata e organizzata dall’efficiente macchina della propaganda, doveva essere accettata da tutti e da tutti divulgata.
In questa direzione sia sufficiente ricordare l’esperienza nazista che alla propaganda ebbe a dedicare addirittura un intero ministero presieduto da Joseph Goebbels il quale organizzava i Bücherverbrennungen di Norimberga in cui venivano date alle fiamme, tra le altre, le opere di Albert Einstein, Marcel Proust, Ludwig von Mises, Thomas Mann. Ma si pensi anche all’esperienza sovietica che, per esempio, premiava gli artisti e gli intellettuali le cui opere erano aderenti alla “coscienza socialista” boicottando o perseguitando gli altri. Scrittori come Vladimir Bukovskij, Boris Pasternak, Andrej Sinjavskij o Aleksandr Solzenicyn o scienziati come il matematico Natan Sharansky o il fisico Andrej Sacharov furono trattati come pazienti psichiatrici, solo perché si dimostrarono restii ad assorbire ed interiorizzare la mentalità totalitaria del socialismo sovietico.
La “coscienza socialista” di matrice sovietica a cui dovevano conformarsi artisti, scienziati e intellettuali, oggi è divenuta la “coscienza genderista”, così che se non ci si dichiara gender-friendly si è automaticamente fuori dal consesso di civiltà, intelligenza, umanità e capacità che invece contraddistinguono tutti coloro che sposano, propugnano e difendono l’ideologia gender, anche ignorando cosa essa realmente sia e quali siano i suoi reali effetti. Ciò che, tuttavia, stupisce è la perfetta, quasi militaresca e prussiana compattezza di alcuni ambienti – come il giornalismo politico o il mondo dello spettacolo – nella adesione acritica alla “coscienza genderista” ben oltre i paradigmi formali tracciati dal non-pensiero del politicamente corretto. Sorgono quindi inevitabilmente degli interrogativi. Come è possibile che l’intero mondo dello spettacolo condivida la medesima idea? Come è possibile che l’intera intellighenzia italiana sia solidamente univoca a favore del Ddl Zan? Come è possibile definire intellettuale una classe che si adagia sulla mera volontà politica e ideologica predeterminata?
In certi momenti, almeno per chi ha studiato la storia recente e ne ha anche impresso in mente la documentazione video-fotografica, sembra di rivedere le scene in cui i delegati del Pcus (Partito Comunista dell’Unione Sovietica) battono ritmicamente e meccanicamente le mani dopo le orazioni di otto e più ore pronunciate da Nikita Kruscev, o i reggimenti compatti dei delegati cinesi che osannano il Grande Timoniere nelle coreografiche assemblee del Pcc (Partito Comunista cinese). Senza dubbio la militanza intellettuale è sempre esistita, e del resto sempre ha sollevato il dubbio se proprio per questo fosse autenticamente intellettuale, ma le voci critiche sono anche sempre esistite.
Tra i numerosi esempi storici possibili, si ricordi la circostanza per cui perfino nelle convulse giornate della rivoluzione ungherese del 1956 – in cui i carri armati sovietici cigolavano sopra i corpi degli inermi cittadini di Budapest secondo la cronaca diretta riportata da Indro Montanelli – molte anime del Partito Comunista italiano, che ufficialmente si schierò a favore dell’intervento militare di Mosca teso a stroncare le aspirazioni di libertà e autodeterminazione del popolo ungherese, ebbero il coraggio di dissentire pubblicamente.
Nel caso dell’ideologia genderista alla base del Ddl Zan, invece, tutti suonano armonicamente all’unisono, e questo dovrebbe suscitare qualche perplessità proprio nelle anime più laiche e liberali, tranne che, forse, i dissenzienti – se ne esistono – rimangono in silenzio, un po’ per prudenza e un po’ per pilatesca codardia, per timore di essere pubblicamente marchiati con l’infamante accusa di essere omofobi o, peggio, ultracattolici (qualsiasi cosa quest’ultimo termine significhi nella sua nebulosa formulazione).
In conclusione, allora, sembrano riacquistare vitalità le riflessioni di un maestro della civiltà giuridica come Francesco Carnelutti che più di mezzo secolo or sono ebbe ad insegnare come “i cosiddetti regimi totalitari non si contentano di proibire manifestazioni di dissenso ma si spingono a volere manifestazioni di consenso. Non c’è bisogno di ricorrere ai ricordi del fascismo o del nazismo quando abbiamo sott’occhio le esperienze del comunismo. Ridurre al silenzio gli avversari era e continua ad essere troppo poco. Il significato del silenzio si è capovolto: non più chi tace consente, sibbene chi tace dissente (…). Il regime totalitario tende, invece, a far pensare tutti al medesimo modo; e poiché questo è impossibile, almeno a far parlare tutti al medesimo modo; cioè a sopprimere più che la libertà di pensare, la libertà di tacere”.
Illustrazione di copertina: Davide Bonazzi