Politica,  Società

L’Europa fa male all’Italia

Una cosa è sicura tra tante incertezze, menzogne, manipolazioni: l’Europa fa male all’Italia. Ancora una volta ci trascina in un vortice interventista dissennato e suicida, caldamente raccomandato dai signori della guerra che da remoto ci spingono a esporci e a finanziare una rovinosa scelta di campo, mentre stanno nelle loro stanze ovali a giocare coi soldatini di stagno, mentre il tintinnio dei cubetti di ghiaccio nel bourbon copre i tuoni di guerra – citazione da Joseph Brodsky ormai all’indice anche lui.

E ci fa male anche culturalmente e moralmente, condannandoci a una vergognosa ipocrisia, quella della rivendicazione di radici, valori e principi fondamentali diventati merci virtuali da esportazione, mentre vengono  violati quotidianamente all’interno della sua “alleanza” che non ha mai voluto e saputo diventare federazione di popoli e oltraggiati dai suoi governi oligarchici sostenuti e “incaricati” per demolire democrazie già traballanti sotto il peso di necessità e austerità, il loro stato di diritto e il loro stato sociale.

Ancora prima di questo conflitto fortemente  voluto  non solo per aiutare il disegno di accerchiamento e isolamento della Russia, ma anche per procrastinare indefinitamente quelle condizioni eccezionali così profittevoli per il regime comunitario e condiviso.

I due anni di ordine pubblico pandemico, irrazionale e repressivo, confuso e contraddittorio, oltre che criminale per il numero di morti e danni provocati, hanno dimostrato anche ai più riottosi e ai più renitenti alla verità, la vera impalcatura di quei valori ripetuti incessantemente dalla retorica dei tromboni che dovevano appagare le buone coscienze obbedienti ai dogmi di uno sviluppo dissipato, disuguale e discriminatore che ha portato alla distruzione del territorio e dell’ambiente, del lavoro ridotto a servitù, alla rottura di vincoli sociali e patti generazionali, alla demolizione dell’istruzione e della sanità pubblica, alla svendita e alienazione dei beni comuni.

E oggi ancora di più viene alla luce il carattere degenerato e barbaro di questo regime sovranazionale che si rafforza grazie alla replica su scala delle sue procedure autarchiche che dobbiamo a governi asserviti e assoldati per abbattere democrazie che via via erano indebolite per il susseguirsi di crisi lasciate degradarsi opportunamente in emergenze e per la cessione di competenze e poteri.

Se adesso siamo accampati in questa lugubre trincea lo dobbiamo anche al ricorso a un linguaggio e a una comunicazione che ha recuperato la paccottiglia estratta dalla naftalina in cui l’aveva riposta la narrazione globalista e cosmopolita: gli stilemi legati all’unità nazionale, dell’amor patrio, del ruolo ordinatore più che difensivo delle gerarchie militari, che un presidente, non a caso banchiere, cominciò a far sfilare con galloni e pennacchi il 2 giugno, mentre perdevano sempre più valore il 25 aprile e il Primo Maggio.

In questi due anni il racconto di autorità e stampa ha assunto i toni marziale dell’epica per galvanizzare i popoli e arruolarli nella lotta al nemico comune, che si è capito ben presto non essere il virus, bensì i disobbedienti, i peccatori di eresia di dogmi della scienza e del progresso, i cultori del libero arbitrio trasformato in peccato o patologia, i dubbiosi.

Oggi lo stesso esercizio si ripete fino alla noia, grazie alla più congrua contestualizzazione, attraverso i codici convenzionali della narrazione bellica arricchiti dall’esuberante ostensione di reperti d’archivio riproposti come cronaca vera, delle selezione di immagini al servizio della tv del dolore, di cronache redatte e trasmesse da quella vergognosa compagine di inviati speciali accampati nelle hall degli alberghi a farsi tradurre le agenzie locali, riprese spudoratamente da opinionisti, alcuni dei quali resistono da due anni grazie alla loro poliedrica ignoranza e superficialità mainstream. E della sdegnata condanna per i nuovi talebani che avrebbero distrutto un monumento dell’Olocausto, quel Babij Yar, celebrato da Evtusenko e Šostakovič, ambedue simbolicamente espulsi  da biblioteche e teatri, che gli israeliani informano essere intatto al suo posto fisico, mentre su quello che occupa nella memoria collettiva nutriamo forti dubbi.

E d’altra parte non sorprende che in un sistema che abusa del termine democrazia per coprire l’accelerata riduzione di partecipazione, la sistematica repressione della critica e la censura di voci dissenzienti, la promozione di disuguaglianze sempre più profonde, fondi la sua potenza distruttiva sul dominio dell’opinione pubblica, cui è interdetta la dialettica, limitato l’accesso alle informazioni che riguardano le esistenze e le scelte degli individui e della collettività, grazie a pratiche di controllo sempre più invasive e persuasive.

Lo conferma la constatazione che i rigoristi sanitari che hanno  preteso le piazze vuote per ostacolare i contagi e aiutare i commerci, le riempiano rafforzando un disegno e un’azione di belligeranza  dissennata e autolesionista, per concorrere ad attribuire un significato morale all’interventismo di un governo che ha voluto acquisire una leadership scellerata e sovversiva di repressione e criminalizzazione di una parte non irrilevante delle popolazione, per legittimare la dissipazione di risorse in armamenti e aiuti militari e per autorizzare una partecipazione diretta fonte di prevedibili danni, disastri e costi economici e umani.

Ci sarebbe da ringraziare l’effetto rivelatore del susseguirsi  tragico di eventi non solo prevedibili, ma addirittura accelerati o creati ad arte, che dimostra come l’edificio morale sul quale si colloca l’Europa sia una costruzione fallace e artificiale. E non poteva essere diversamente per via della coerenza con la visione aristocratica ed elitaria dei suoi padri fondatori.

Da decenni il concetto di “suolo patrio” era trattato come un avanzo del secolo breve, da rifiutare perché si associava al nazionalismo, al razzismo, alla xenofobia, a differenze ingiuste, mentre invece doveva essere favorita e resa eticamente obbligatoria la condivisione di ideali superficiali di ugualitarismo coatto, di coesione epidermica, dell’universalismo della globalizzazione, in modo che l’appartenenza si riducesse a affiliazione, fidelizzazione, accettazione di abitudini, mode, tendenze con l’abiura a talenti, specificità, vocazioni, e per colpevolizzare in un colpo solo “populismi”, “sovranismi” e pure l’internazionalismo retrocesso al cosmopolitismo  dei turisti in mete esotiche e della generazione Erasmus.

Da anni è stata avviata una pratica di decodificazione positiva di concetti che dovevano sortire l’effetto redentivo di un pensare comune che travalicasse i confini, tagliasse i fili spinati dei recinti e abbattesse i muri, con l’unico risultato di aver liberata la circolazione tossica di capitali e legittimato delocalizzazioni, esodi   forzati di individui e popolazioni, si trattasse di eserciti di lavoratori, di immigrazioni interne o di residenti espulsi dai centri storici, contribuendo all’esproprio di beni comuni, territori, patrimoni artistici e dunque di sovranità, ostacoli tutti alla necessaria perdita di identità e memorie che potrebbero risvegliare istinti di critica e libertà, incompatibili col pensiero mainstream.

In questi giorni invece veniamo invitati a sacrificarci per il rispetto dei sacri confini di una nazione dopo che per anni e anni abbiamo partecipato alla cancellazione fisica di patrie, nazioni, stati, e a quella morale di identità e tradizioni.

L’anno scorso è stato tradotto in Italia con una illuminante prefazione di Andrea Zhok il libro “I confini contano” di Frank Furedi di cui sollecito la lettura e che invita a sottrarsi al richiamo di chi raccomanda l’abolizione dei confini come a un ideale culturale e sociale, mettendo in luce il rapporto stretto tra il rifiuto delle demarcazioni fisiche e un sistema che invece ha cancellato quelle che danno un senso alle differenze, alle particolarità, ai diritti di scegliere e comportarsi secondo una coscienza libera.

Bisognerebbe ricordare chi sono i generali che hanno sconfinato e sconfinano nelle nostre geografie umane, chi ci ha invaso da tempo e con una potenza tossica in questi due anni, chi ha mandato le sue truppe a depredarci di un patrimonio di desideri, aspettative e affetti promuovendo l’invasività a scopo morale della sfera pubblica e degli spazi privati, impedendo libere scelte nell’arco delle esistenze, dalla culla alla morte.

Anna Lombroso

SEGUICI SU TELEGRAM

ilsimplicissimus / Illustrazione di copertina: Emmanuel Polanco

Lascia una risposta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *