Memoria è un bene, condivisa è un’utopia
Ma ci sarà mai una memoria condivisa? L’appello istituzionale della diarchia Draghi-Mattarella può essere realmente accolto dagli italiani e dalle forze civili del nostro Paese? Il riferimento era alle grandi tragedie del novecento, nel tour delle giornate della Memoria e del Ricordo dei giorni scorsi, ma la memoria condivisa dovrebbe partire da più lontano. Al di là del Novecento, abbiamo una memoria condivisa? Il primo riferimento che ci troviamo davanti camminando all’indietro, è il Risorgimento e l’Unità d’Italia: c’è una memoria condivisa? Forse c’era, almeno in superficie, ma da decenni non c’è. Non sono pochi coloro che rimpiangono i regni asburgici (al nord) e borbonici (al sud); c’è un revisionismo storico sulle pagine infami del Risorgimento e perdura un senso serpeggiante di freddezza e di estraneità verso l’amor patrio e lo stato nazionale, nel nome di una visione internazionalista, socialista, mondialista. Diciamo che il Risorgimento è una memoria riconosciuta, seppure ormai stinta e inoperosa, ma non può dirsi propriamente una memoria condivisa. La stessa cosa si può dire della Prima Guerra Mondiale, di cui c’è già una divaricazione nelle commemorazioni: c’è chi celebra la Vittoria e il compimento dell’unità nazionale in unità popolare e c’è invece chi celebra la fine del conflitto, e trae solo un messaggio in negativo: mai più guerre, mai più confini. Dunque anche la Prima guerra mondiale, al di là del rispetto verso le vittime, non genera nel nostro Paese una memoria condivisa. A maggior ragione è impossibile pensare a una memoria condivisa riguardo all’avvento del fascismo in Italia e del comunismo oltre i confini orientali, la guerra mondiale e la guerra civile.
L’unica cosa che possiamo auspicare è l’intoccabile rispetto per gli orrori. Infatti non a caso, si spengono le feste nazionali legate alla storia e restano in piedi due commemorazioni di massacri, la memoria della Shoah e il ricordo delle foibe e dell’esodo. È la Vittima l’unico punto di concordia; non unanime, ma davanti a cui tacciono le divergenze.
Dunque, che conclusioni trarre? La memoria condivisa è un ideale regolativo, un principio a cui tendere, ma non è davvero raggiungibile. E se viene in qualche modo imposta, il risultato è la retorica di chi la somministra e la finzione di chi la ingurgita; comunque, l’ipocrisia. Lo dicevo ieri parlando di foibe alla Nunziatella di Napoli.
Allora l’unico modo è riconoscere il significato pubblico di alcuni eventi cruciali della storia ma poi accettare che vi siano differenti priorità e memorie divise. Il problema allora non è costringere o convertire tutti a ricordare alcuni eventi in chiave celebrativa, ma di generare un fondo comune di rispetto e di amor patrio e senso comunitario, salvo poi lasciare a ciascuno la possibilità di condividere alcune memorie e coltivarne altre. Quel che non deve mai venir meno è il rispetto per il pensiero e la vita degli altri, a partire da coloro che furono protagonisti in positivo o vittime di quegli eventi. Insomma c’è da condividere il rispetto, ma nella diversità di giudizi. E indipendentemente dai calcoli numerici. Quando si rifiuta sdegnosi il paragone tra la Shoah e le Foibe appellandosi ai numeri diversi, si compie una forzatura: da italiani abbiamo avuto alcune migliaia di vittime nei campi di sterminio e alcuni migliaia di vittime nelle foibe. Ma le vittime italiane delle due tragedie si inseriscono nelle più ampie tragedie della Shoah e degli orrori del comunismo che hanno mietuto milioni di morti. Le vittime della Shoah sono concentrate in periodo di guerra, le seconde sono spalmate in periodi più lunghi di pace e su più popoli. Ogni tragedia è incomparabile nella sua unicità, non si possono fare classifiche.
Il bene supremo da tutelare non è allora la condivisione ma l’esercizio della memoria: nel senso che oggi il pericolo peggiore è che viviamo nella smemoratezza generale, abbiamo perso la memoria storica, viviamo affogati nell’oblio. Si tratta di riattivare i circuiti della memoria, studiare e far studiare il passato, riprendere la storia, riconoscerla a fondamento del presente.
E dobbiamo compiere un’altra “rifondazione” della memoria, non associandola sempre e solo agli orrori, o identificare la Memoria con l’Olocausto, dando una connotazione funesta e nefasta alla memoria, da cui i giovani poi fuggono; ma comprendere nella memoria la storia negli orrori e nelle glorie, trovare posto agli eroi e non fermarsi solo sulle vittime, ricordare i popoli e i soldati e non solo i macelli; ripristinare un giudizio etico su chi combattè onorando la sua causa e chi invece la disonorò, su chi scontò la propria Idea sulla sua pelle, e chi invece sulla pelle altrui.
Insomma, la memoria va restituita alla pienezza del rammemorare: nel bene e nel male, e ciascuno secondo il suo libero pensare, imponendosi solo di non oltraggiare le memorie altrui e di accettare che esistano altre priorità storiche. Bisogna dunque tendere a rendere condivisa non quella memoria anziché quell’altra, ma rendere il più possibile condivisa l’importanza della memoria storica, nel reciproco rispetto delle differenti sensibilità.
Resta infine da riconoscere la diversità e insieme la concomitanza di due elementi: la memoria e il ricordo. La memoria è etimologicamente un portare alla mente, che si applica preferibilmente a eventi storici e pubblici; il ricordo è etimologicamente un portare al cuore e si applica preferibilmente a eventi e sentimenti personali, magari comunitari ma non istituzionali. Soren Kierkegaard nella sua opera In vino veritas distingueva tra la memoria che è attiva nei giovani e sfocata negli anziani, dai ricordi che gremiscono la mente degli anziani mentre sono pochi nei giovani. Col tempo i giovani hanno spostato la memoria su procedure tecniche e pratiche. Domina l’oblio.
Il ricordo e la memoria sono le sponde che collegano la vita alla storia e la mente al cuore.
Illustrazione di copertina: Joey Guidone