Non è un paese per etero
La prepotente ascesa del movimento LGBT e dell’ideologia (trans)gender.
Altroché Immuni! Se la tanto annunciata app di tracciamento covid si sta rivelando un clamoroso flop, eccone un’altra a rubarle le luci della ribalta. Si tratta della già nota FaceApp, tornata in auge grazie al nuovo filtro “transgender”: basta un clic per cambiare sesso alle proprie fotografie, e vedersi quindi in versione femminile se si è un maschietto, e in versione maschile se si è una femminuccia. Risultati esilaranti e grande successo sui social.
Ma dietro all’apparentemente innocuo aspetto burlesco della faccenda, si nasconde una questione assai controversa. L’anno scorso, dopo che anche Snapchat aveva lanciato un filtro di questo tipo per i propri utenti, era subito arrivato il plauso della comunità transgender che lo vede come un’opportunità per sensibilizzare il grande pubblico su un tema tabù come quello della transessualità. La sociologa Jessie Daniels dell’università di New York ritiene infatti che tali filtri possano essere un’esperienza radicalmente trasformativa per tutti coloro che non sono ancora familiari col concetto di “fluidità di genere” (per cui il genere è visto come un attributo non innato e non binario, e quindi né strettamente maschile né femminile):
“Per costoro può diventare un’occasione di giocare col genere allo stesso modo in cui noi della comunità LGBTQ ci giochiamo da tutta la vita, imparando così a coglierne l’aspetto di convenzione sociale” , dice la Daniels, secondo cui potrebbe tornare utile non solo per quei ragazzi alle prese con la propria identità di genere, ma anche semplicemente per introdurre i più giovani alla nozione di genere fluido.
Intanto la campagna di sensibilizzazione procede su più fronti. Secondo GLAAD (Gay and Lesbian Alliance Against Defamation), negli ultimi anni la presenza di personaggi LGBT sui media mainstream è aumentata vertiginosamente, arrivando a una quota di circa il 20% nei film e del 10% in TV. Questa strategia sembra funzionare alla perfezione: negli Stati Uniti, il numero di persone che si identifica nella galassia LGBT (comprendente Lesbische, Gay, Bisessuali e Transessuali, a cui talvolta si aggiunge la Q di “queer”, strano od eccentrico) è in continuo aumento e oggi raggiunge, sempre secondo GLAAD, attorno al 12% della popolazione totale. Ma il dato più eclatante riguarda le nuove generazioni: tra i Millenials (21–37 anni), uno su cinque è LGBT, quasi tre volte la percentuale tra i Boomers (55–74 anni) e oltre il 50% in più rispetto alla Generazione X (38–54 anni). Addirittura, per i giovanissimi della Generazione Z (fino a 20 anni), l’eterosessualità sembra per la prima volta essere diventata una scelta minoritaria, con solo il 48% degli intervistati che si considera esclusivamente etero.
Se per alcuni questi risultati possono sembrare sorprendenti e forse persino preoccupanti, per la lobby LGBT, invece, questo è solo l’inizio. La cosiddetta “ideologia gender” ha radici nel femminismo radicale e nei movimenti di liberazione omosessuale degli anni ’60 e ’70 (filosoficamente, queste radici vanno ancora più indietro, fino all’ateismo, marxismo e nichilismo di fine ottocento). Antitetica alla visione cristiana su cui si fondava la civilità occidentale, questa ideologia ripudia il concetto di sessualità binaria (maschio e femmina), così come il matrimonio e la famiglia tradizionale. Considera le differenze sessuali come “costrutti socioculturali” e l’identità sessuale come una libera scelta da compiere entro uno “spettro di possibilità”.
Lo scopo finale di tale ideologia non è semplicemente di integrare le persone LGBT e le loro relazioni nella società attuale, bensì di sovvertire e distruggere questa società per costruirne una completamente diversa. Come spiega nel suo ultimo libro il noto storico e attivista gay Martin Duberman, l’obiettivo è distruggere la famiglia nucleare, cancellare ogni vestigia di moralità ed instaurare una “nuova utopia nell’area della trasformazione psicosociale … una rivoluzione gender per cui ‘maschio’ e ‘femmina’ diventino distinzioni obsolete.” Già negli anni ’70, d’altronde, idee simili erano state espresse da femministe radicali come Shulamith Firestone, che auspicava “l’eliminazione non soltanto del privilegio maschile ma della distinzione sessuale in sé stessa”. Solo così, pensava la Firestone, “la tirannia della famiglia biologica sarebbe stata sconfitta”, ed una “pansessualità senza limiti” avrebbe sostituito l’eterosessualità così che “ogni forma di sessualità sarebbe stata permessa ed assecondata.”
In molti paesi occidentali, specialmente quelli di sfera culturale anglosassone, l’ideologia gender è già entrata nel curriculum scolastico. Nei testi di educazione sessuale è stato espunto ogni riferimento al sesso biologico, rinominato “sesso assegnato alla nascita”. Questo dovrebbe lasciare intendere che il sesso non è qualcosa con cui siamo nati, ma solo qualcosa che la società ci ha assegnato alla nascita e che in seguito potremo cambiare a nostro piacimento. Secondo un crescente numero di esperti come la prof. Deanna Adkins della Duke University, perfino “da un punto di vista medico, ciò che determina propriamente il sesso è l’identità di genere” ed ogni tentativo di “classificare qualcuno come maschio o femmina” basandosi su “cromosomi, ormoni, organi riproduttivi interni o genitali esterni” sarebbe da considerarsi anti-scientifico.
Quindi il sesso non andrebbe più visto come una caratteristica fisica legata al nostro ruolo biologico nella riproduzione della specie, ma come un “senso interiore di appartenenza ad un particolare genere, come il maschile o il femminile”, spiega la Adkins. In pratica, il sesso di una persona viene determinato da come quella persona si sente, e non piú da parametri oggettivi. Per l’ideologia gender, ognuno è libero di essere quello che si sente di essere e come tale deve essere riconosciuto dagli altri. Non deve sorprendere quindi che molte scuole americane abbiano cominciato a promuovere iniziative come la “Drag Queen Story Hour”, dove persone travestite da demoni infernali leggono favole ai bambini mentre li “sensibilizzano” sul loro stile di vita.
Il nuovo modello educativo richiede un’accettazione incondizionata dell’ideologia gender sia da parte dei ragazzi (e delle loro famiglie) sia da parte del corpo insegnante. Ogni resistenza (anche solo esprimere dei dubbi) viene bollata come “discriminatoria” e può portare a gravi conseguenze legali, come la perdita della potestà genitoriale per quei genitori che si rifiutino di cambiare sesso a proprio figlio, o la perdita del lavoro per quegli insegnanti che si rifiutino di riferirsi a studenti LGBT con specifici pronomi gender-fluid (avete capito bene, in inglese ce ne sono circa una decina). Secondo le nuove disposizioni inoltre, in molte scuole pubbliche gli studenti transgender possono usufruire dei bagni e degli spogliatoi adibiti al sesso opposto, e addirittura competere con ragazzi dell’altro sesso in manifestazioni sportive.
La lobby LGBT, con un budget di centinaia di milioni di dollari l’anno e a capo di un mercato che solo negli USA ne vale quasi un triliardo, ha ormai invaso anche il mondo del business. Dai primi anni 2000, la Human Rights Campaign Foundation (HRC) ha creato un Indice di Equità Corporativa che classifica le aziende sulla base di quanto sono “gender-inclusive”. Oggi, migliaia di top brands mondiali sono orgogliosamente LGBT-friendly e chi non si adegua rischia di essere ostracizzato. Negli ultimi 5 anni è esploso il fenomeno delle pubblicità a tema arcobaleno, specialmente nel mese di giugno, detto anche “il mese del Pride”. Un esempio lampante è lo spot della Diesel uscito la scorsa settimana, che raffigura una trans di nome Francesca alle prese con la transizione da uomo a donna. Anche senza considerare la blasfemia della scena finale, dove “Francesca” prende i voti ed entra a far parte di un collegio di suore (gli LGBT non erano quelli che predicavano il rispetto della sensibilità altrui?) il messaggio che viene trasmesso ai giovani è che basti prendere una pillola al giorno per cambiare sesso e diventare una donna.
Ma la verità è ben diversa. La “transizione sessuale” comporta per i più una vita di sacrifici ed una serie di gravi problemi legati all’assunzione di farmaci dannosi e a pericolosi interventi chirurgici. Uno studio svedese, ad esempio, ha dimostrato che gli adulti che subiscono l’operazione di riassegnazione chirurgica del sesso hanno un tasso di suicidi il 20% più alto della media, e questo nonostante la Svezia sia uno dei paesi più tolleranti in questioni di gender. Inoltre, non ci sono prove scientifiche che la transizione aiuti le persone transessuali a stare meglio, o a risolvere la loro disforia di genere. Secondo uno studio americano del 2015, molti di essi (l’11% delle donne trans e il 4% degli uomini) rimpiangono la decisione presa a tal punto da sottoporsi ad un’ulteriore operazione chirurgica per tornare sui propri passi. Alla luce di tutto ciò sembrerebbe legittimo chiedersi se sia davvero responsabile promuovere così apertamente una pratica tanto rischiosa quanto controversa.
E invece, se nei prossimi giorni il parlamento approverà il nuovo ddl Zan-Scalfarotto contro l’omotransfobia, anche qui in Italia esprimere il proprio disaccordo potrebbe d’ora in avanti essere perseguibile per legge. La proposta infatti estenderebbe il codice 604 bis del codice penale — che punisce azioni e parole discriminatorie a sfondo razziale, etnico e religioso — ai reati legati all’orientamento sessuale e all’identità di genere. In pratica, criticare in pubblico l’omosessualità o l’ideologia gender potrebbe essere considerato come un atto discriminatorio e comportare sanzioni fino a un anno e 6 mesi di carcere o 6.000 euro di multa. Da sei mesi a 4 anni di carcere invece per chi facesse parte di un’associazione che promuova tali discriminazioni: sarebbe questa la pena prevista per un prete cattolico che insegni a catechismo che gli atti omosessuali sono “intrinsecamente disordinati” e “contrari alla legge naturale”?
Infine la nuova legge prevederebbe un’aggravante omofobica per i reati già esistenti: se ad esempio io offendessi pubblicamente la reputazione di una persona omosessuale dicendo “Non mi piace, non condivido la tua omosessualità”, potrebbe essere considerata diffamazione con aggravante omofoba: un anno e mezzo di carcere o 1.500 euro. Se invece qualcuno mi dicesse “Non mi piace, non condivido la tua eterosessualità” non sarebbe affatto reato, ma un diritto: il diritto di parola. Si tratterebbe infatti di semplice libertà di espressione.
Di recente, diverse voci si sono alzate contro la proposta di legge, criticandola aspramente: “Il ddl finisce in realtà per costruire ulteriori muri, recinti e riserve, in cui alcuni diventano più uguali degli altri”, ha tuonato l’avvocato Simone Budelli dell’Unione giuristi cattolici di Perugia. Anche la Cei, in una nota congiunta, ha espresso il suo dissenso. Ma la maggioranza sembra decisa ad andare avanti, cavalcando l’onda pan-progressista della sinistra occidentale. La nuova politica, lo dimostrano anche le recenti proteste antirazziste oltreoceano, è sempre più una identity politics — una politica di identità. Si tratta infatti di saper gestire una epocale trasformazione culturale ed antropologica. Ma ci vuole equilibrio. L’opposizione ad un progressismo sfrenato ed irresponsabile non può e non deve essere lasciata nella mani di un conservatorismo becero ed ottuso. Le tradizioni e la morale devono sapersi adattare ai tempi ma non possono essere snaturate contro ogni buon senso, altrimenti invece che ad un rinascimento andremo incontro ad una fase caotica di degrado culturale. In un momento come questo diventa quantomai necessario stimolare nell’opinione pubblica un dialogo civile e costruttivo su questi ed altri temi di fondamentale importanza, per permettere alla società nel suo complesso di orientarsi verso il futuro. Ogni iniziativa che miri a scoraggiare o a limitare tale dialogo imponendo un’interpretazione unica, anche se in nome di valori universali come l’antirazzismo o la difesa delle minoranze, non farà altro che acuire le divisioni e le incomprensioni tra la popolazione e va quindi garbatamente, ma fermamente, respinta.
Articolo di Giugno 2020
Illustrazione di copertina: Lydia Ortiz