
Pietra della follia, Caos ed Eudemonismo
Che vi fosse una forma, – se non di predestinazione – almeno di sincronicità nel modo in cui entriamo in contatto con i libri – o meglio come loro vengono in contatto con noi – mi è sempre stato chiaro. Ma mai come in questo periodo ciò mi si rivela.
Qualsiasi volume mi convochi, affidatomi dalla battigia dei vecchi accumuli, sembra parlare di un unico grande argomento, di una sola perpetua contingenza collettiva che in questo preciso passaggio storico è esplosa o è arrivata al suo culmine, e i suoi lapilli piovono con implacabile equivalenza su tutti, coinvolgendo tanto l’erudito quanto l’illetterato, iscrivendo ciascuna ordinarietà in uno scottante snodo escatologico.
Oggi, per esempio, prendo in mano un recentissimo libricino acuto di Labatut, la Pietra della Follia, che introduce una intuizione deliziosamente disturbante di Lovecraft intorno alla iper-scientificizzazione del mondo e alle ripercussioni che questo avvenimento comporterà sulla specie umana in senso antropologico/sociale e sull’ *anima mundi* in senso psicoanalitico, o se vogliamo, gnostico.
[Sarà, ovviamente, che questo tema è anche un leitmotiv delle mie personali riflessioni]
“Nell’estate del 1926 lo scrittore nordamericano Howard Phillips Lovecraft aprì uno squarcio su un nuovo tipo di orrore. Sebbene a stento trovasse le parole per descriverlo, riuscì a cristallizzare alcune parti del suo incubo nel racconto intitolato Il richiamo di Cthulhu, dove mise in guardia la nostra specie sul riaffacciarsi di un antico terrore, il rischio di oltrepassare i nostri limiti e l’incognita di cosa potrebbe attenderci una volta varcata la soglia.
« La cosa più misericordiosa al mondo » scrisse Lovecraft « è l’incapacità della mente umana di mettere in relazione tutto ciò che contiene. Viviamo in una placida isola di ignoranza in mezzo alle acque torbide dell’infinito, e non è nostro destino viaggiare lontano. Fin’ora le scienze, perseguendo ognuna la propria strada, ci hanno danneggiato in minima parte; ma verrà il giorno in cui il mosaico di tutti i frammenti della conoscenza ci offrirà una visione talmente agghiacciante della realtà, e del posto che occupiamo al suo interno, che o impazziremo dinanzi a quella rivelazione, oppure rifuggiremo l’illuminazione rintanandoci nella pace e nella sicurezza di una nuova èra oscura».

Nel racconto, un uomo scopre l’esistenza di un culto dedito al risveglio dal sonno eterno di un’antica divinità. Indagando sul conto della setta, il protagonista viene a conoscenza di insoliti casi di isteria di massa, panico, raptus, manie e altre stranezze connesse a una serie di statuette raffiguranti un idolo, la cui forma non solo è raccapricciante, ma in qual che modo è dotata di un’intrinseca malvagità.”
Il titolo del libro di Labatut fa riferimento ad un quadro di Bosch ospitato al Prado, che raffigura un uomo a cui degli strambi operatori “scientifici” perforano il cranio nel tentativo di estrarre quella che, a loro dire, sarebbe la responsabile dello squilibrio esistenziale del malcapitato, una ipotetica pietrolina formatasi nel cervello.
Sul frontespizio del libro di Labatut, una citazione calzante di Gramsci, (che ho scoperto stamattina essere stato in passato coperto di fango dal kamikaze intellettuale Orsini).
“La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati.”
Labatut ci racconta che David Hilbert, il “Papa della matematica del XX secolo”, nei primi del 900 decise di mettere a punto un ambizioso programma per accorpare tutti i rami della matematica in un unico granitico corpus di assiomi logici, al fine di preservare la sua disciplina dalle crepe strutturali che alcune altre indagini, come quelle intorno all’infinito e alla geometria non euclidea, le volevano infliggere: questo tentativo *coincise* con l’ascesa dei nazifascismi.
In questo senso, l’irrazionalità perciò non è più data dall’assenza di ragione, ma da un suo eccesso.
Ne deriva che ad ogni tentativo di imbrigliare definitivamente l’inafferrabile, di massimizzare la razionalità, di indurirla in una funzionalità infallibile, questa operazione sfocia, socialmente parlando, immancabilmente nel suo opposto, in un oblio della ragione popolato di mostri, in un quadro di Ernst, in una follia ordinatrice in cui l’eudamonia (εὐδαίμων) si risolve in vocazione prometeica.
L’umanità si asserraglia in una asetticità algebrica priva di inconvenienti (il cui primo è l’Io stesso) all’interno della quale il vuoto, coadiuvato dal piacere, è innalzato a Totem protettivo contro la minaccia del dubbio/sacro/follia/caos.
“Non hanno coscienza alcuna perché non hanno coscienza di avere coscienza” dice Mefistofele nel Faust.
Questa situazione però è giudicata da Labatut, stranamente, generata da una forza reazionaria, e quella motrice, al contrario, secondo lui sarebbe responsabile dell’abbordaggio alla “fiducia incondizionata degli esseri umani nella possibilità che equazioni matematiche pure (*o algoritmi*) potessero rispecchiare e governare il mondo con esattezza”.
Secondo Labatut Il mondo è finito in un cullante “off-book”, ha esaurito il suo repertorio. Aggiungo io che sembra esserne fiero e non inquietato, sollevato e non angosciato, forse appagato dal comodo compito di riproporre, in salsa aggiornata, follie già testate, dagli imprevisti calcolati, da spruzzare come deodoranti ambientali nella sua agenda paralitica.
Io invece vedo la forza progressista, con gran colpo di teatro cognitivo, responsabile del tentativo di appropriazione indebita di quelle forze imponderabili della Natura che agiscono su tutto, paradossalmente, proprio con indecifrabili algoritmi.

Un progressismo trasversale, narcotico e opportunisticamente tollerante, adornato di ghirlande, che non appartiene più ad una certa fazione politica, ma le abbraccia tutte, in quella che l’antropologo De Martino chiamerebbe “apocalisse culturale” e che persino il folle Nostradamus preconizzava così:
“Il ritorno della Bestia,
né morta né mai sconfitta,
annulla le opposizioni,
impaurite, o asservite, o stupide”.
“Macerie lasciate dal crollo delle nostre narrazioni onnicomprensive” scrive Labatut, che si scagliano contro l’immane verità che il caos non è affatto puro disordine, ma fa parte dell’equilibrio,ed ogni tentativo di asportarlo dalla società per instaurare una Città del Sole automatizzata con tanto di bontà indotta, [credito sociale] non è che soggiogazione e incanto schizofrenico.
È possibile estrarre la pietra della follia dal nostro essere? Risponde Foucault: “non dimentichiamo il famoso medico di Bosch, ancora più folle di colui che egli vuole guarire: poiché tutta la sua falsa scienza non ha fatto molto di più che deporre su di lui i peggiori stracci di una follia che tutti possono vedere tranne lui stesso”.
Illustrazione di copertina: Edel Rodriguez

