Società

Salviamoci dall’apatia

Mi domando fino a che punto si potrà andare avanti con questa farsa o se ormai è stato superato il punto di non ritorno.

Se un po’ di tempo fa, cercando di osservare la situazione con lucidità, si era propensi a viverla come un conto alla rovescia verso un inevitabile momento di rottura sociale, oggi invece si ha la sensazione che quel momento potrebbe non arrivare mai.

È vero, molte persone iniziano a rendersi conto che qualcosa non quadra, che ciò che sta accadendo alle nostre vite ha ormai davvero poco a che fare con l’aspetto sanitario, ma la maggior parte – incluse ovviamente quelle che inspiegabilmente sembrano saper condurre senza problemi un’esistenza da larve – sono entrate in un’apatica fase di accettazione e di pericoloso senso di abitudine.

Nonostante il mio settore – come ogni ambito legato all’arte e alla cultura – sia uno dei più colpiti da questo tsunami economico, mi dà tuttora la possibilità di osservare quotidianamente l’evolversi dello stato d’animo di diverse generazioni, come una sorta di termometro sociale la cui temperatura, diversamente dalle aspettative, sta scendendo sempre di più.

Non escludo che sia solo apparenza o necessità di assaporare piccoli e centellinati momenti di “distanziata socialità”, non escludo nemmeno che dietro gli stati d’animo più comuni – indifferenza oppure ottimismo ostentato – si nascondano grandi preoccupazioni o depressioni latenti, ma ad ogni modo il risultato che si ottiene è una sorta di sottomissione ad uno stato di assenza di aspettative.

O forse una rassegnata amarezza, quella che Cesare Pavese descriveva come l’alba di un giorno in cui nulla accadrà. Perché a lungo andare il vivere solo per un miserabile presente ti logora, ti fa sentire inutile.

Sta svanendo anche la voglia di parlare, di confrontarsi, spesso solo per la paura di esporsi, per evitare magari di trovarsi a discutere con coloro che fanno della pandemia una questione ideologica e che non a caso di solito sono gli unici, dall’alto della loro presunta superiorità intellettuale, a non esitare minimamente nel fare la morale al prossimo o nell’esaltare il distanziamento permanente.

Non ci si domanda più cosa sia giusto o sbagliato, dove sia la linea di demarcazione tra un indecifrato senso civico e la negazione della stessa natura umana e come sia possibile che sulla base di criteri di dubbia natura e irrazionali sensi di colpa siamo arrivati a vedere il vivere come una malattia.

Si procede, come telecomandati, accettando che siano le scelte altrui, fatte di inspiegabili parametri, numeri e cambi di colore, a condizionare il nostro presente e a determinare sempre di più il nostro futuro, preparando così il terreno a una generazione che crescerà pronta a un cambiamento epocale, una riorganizzazione sociale basata su uno sconvolgimento drastico di abitudini, di relazioni, un’immensa e sorvegliata DAD.

Ma se ci lasciamo travolgere da questa apatia continuando a non vedere il problema, diventeremo noi stessi il problema in quanto complici di una società inumana e delle sorti di quella generazione che vedrà tutto questo come qualcosa di normale. Anzi, probabilmente si stupirà nel pensare che un tempo ci si abbracciava, si guardavano i concerti tutti ammassati, si manifestava per le strade o si aveva la libertà di esprimere il proprio dissenso.

Io stesso mi trovo spesso a fingere sorrisi e indifferenza nascosti dietro una mascherina, mosso dal bisogno naturale di proteggere il mio ambiente dall’assurdità che ci circonda, di mantenerlo come una sorta di isola felice. Controsenso o istinto di sopravvivenza. Non lo so.

Di sicuro faccio parte di quelli che si rifiutano di porgere un gomito per salutare, che non riescono più a tollerare le persone che camminano mascherate all’aria aperta o in auto in solitudine, le stesse persone che rinunciano alla dignità del vivere per pavidità nei confronti della morte o per il semplice rischio di prendere una multa. Patisco fortemente chi è sempre pronto ad accusare di irresponsabilità il prossimo, trovo insopportabile la propaganda intrisa di retorica sulla nuova normalità e sul “reinventarsi” e gli spot melensi fatti di abbracci al plexiglas.

No, non riesco ad abituarmi a tutto questo e voglio pensare che questa insofferenza possa diventare essa stessa una salvezza, il vero vaccino contro l’apatia che ci potrà travolgere e la rassegnazione a un domani senza colori. Dopotutto, anche se sembra già segnato, il futuro dev’essere ancora scritto.

Perché come diceva Freud, l’unica cosa peggiore dei sogni svaniti è perdere la voglia di sognare ancora.

Mario Percudani

Illustrazione di copertina: Andrea Ucini

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