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Siamo in guerra (parte I)

Siamo in guerra, hanno ossessivamente ripetuto i politicanti europei ed americani dall’inizio dell’epidemia. Penso che le loro parole debbano essere prese sul serio. Siamo effettivamente in guerra, anche se non contro il virus. Quella in corso è una guerra tra grandi potenze. Gli Stati Uniti e l’Europa , da un lato, la Cina e la Russia, dall’altro. Si tratta di un conflitto non combattuto, almeno per il momento, con le armi convenzionali, ma che potrebbe, alla fin fine, lasciare sul terreno un numero di caduti non inferiore alle grandi guerre del passato. Esso non vede contrapposti i buoni contro i cattivi. Non è nemmeno uno scontro di sistemi: capitalismo contro socialismo. In gioco ci sono interessi molto concreti. La posta in palio è l’egemonia sul mondo per i prossimi cento anni . A scatenarlo è stata quella parte dell’elite americana legata alle industrie strategiche del paese: la finanza, le telecomunicazioni, l’informatica, Big Pharma, lo spettacolo.

Quella in corso è una guerra.

Cerco di motivare questa affermazione partendo da una premessa. Il sistema informativo in Occidente è ormai diventato un organo di pura propaganda ed è del tutto inservibile per capire quanto avviene. Per afferrare anche i semplici fatti della cronaca quotidiana, sono molto più utili Tucidide e Tacito che gli editoriali del Corriere della Sera , di Repubblica o del New York Times. Questo rende difficile l’analisi. Anche se penso che il quadro d’insieme che cercherò di delineare sia abbastanza credibile, è possibile che i dettagli e i singoli elementi siano sbagliati.
Vediamo, dunque, la situazione sul terreno alla vigilia dell’apertura delle ostilità, il cui inizio faccio coincidere col momento in cui Giuseppe Conte, obbedendo ad ordini provenienti dall’alto, dichiarò il primo lockdown dell’Occidente.
C’è un paese egemone: gli Stati Uniti.

Nel corso dell’ultimo secolo esso ha avuto una ascesa spettacolare. E’ risultato vincitore nelle due guerre mondiali combattute sul campo e poi nella guerra fredda. Per un ventennio , tra il 1989 e il 2008, la sua superiorità è apparsa incontrastata. Ha potuto dispiegare i suoi eserciti in tutti gli angoli del pianeta e, attraverso le istituzioni sovranazionali ad esso legate (l’ONU, l’OMS, l’FMI, la NATO ecc) condiziona la politica interna di tutti gli altri stati. Tra i suoi successi più importanti vi è quello di aver reso l’Europa un suo vassallo.

Esso, tuttavia, si trova di fronte a sfide particolarmente difficili. In primo luogo si deve confrontare con un rivale, la Cina, in ascesa, perché può mettere in campo enormi risorse umane e un potenziale economico illimitato. Inoltre, l’antico nemico sconfitto, la Russia, si è saputo riprendere dalla perdita dell’impero, avvenuta con la fine dell’URSS . L’obiettivo americano di entrare in possesso delle sue fonti energetiche e controllarne l’arsenale militare non è riuscito. La colonizzazione della Russia, col suo definitivo passaggio al campo occidentale, non è avvenuta.
Infine, gli Stati Uniti hanno , al loro interno, problemi drammatici. La scelta compiuta negli anni Settanta del secolo scorso di accostarsi alla Cina è stata la mossa decisiva nel determinare l’esito della guerra fredda , ma ha avuto delle ripercussioni di non poco conto. L’industria tradizionale è stata delocalizzata in Asia e questo ha provocato il tracollo della classe media autoctona. Si sono così venute a creare due Americhe: quella che ha tratto vantaggio dalla globalizzazione capitalistica, concentrata nelle grandi città e legata alle attività finanziarie, e quella che invece è stata impoverita (l’interno con le sue cinture industriali). Questa frattura, sempre più profonda e insanabile, ha ormai assunto la forma dello scontro totale, che vede contrapposti il mondo Dem, con la sua ideologia politicamente corretta, e quello conservatore e tradizionalista che ha trovato in Trump il suo portabandiera. Le ultime elezioni, con le polemiche che ne sono seguite e l’accusa (credo fondata) ai Dem di averne falsato il risultato, lo stanno a dimostrare.
A fronte degli Stati Uniti c’è la Cina.

E’ difficile capire quali dinamiche regolino la sua politica interna. Immaginare che il Partito comunista cinese sia un monolite che si muove come un esercito obbedendo agli ordini del suo segretario generale è però del tutto ingenuo. Di sicuro esiste una dialettica interna, anche se non è facile definirla. L’unica cosa che possiamo con certezza vedere è la direzione di marcia complessiva del paese.

Esso ha avuto, nell’ultimo mezzo secolo, uno sviluppo impressionante, passando, nel giro di due generazioni, da livelli di reddito da terzo mondo a diventare la seconda (e forse la prima) economia mondiale. Soprattutto, i tassi di crescita annuali sono doppi o tripli rispetto a quelli occidentali. Anche sul piano tecnico e scientifico la Cina si sta ormai avvicinando agli Stati Uniti. La classe dirigente del gigante asiatico, al di là delle sue divisioni, che certamente ci sono, ma che non vengono rese pubbliche, sembra concorde nel promuovere lo sviluppo economico del paese e nel garantirne a tutti i costi l’unità territoriale.
In questi anni la Cina ha accresciuto la sua proiezione internazionale, estendendo la sua influenza in Asia ed in Africa.

Anch’essa deve, peraltro, fronteggiare problemi non di poco conto. La scelta di controllare le nascite attraverso l’obbligo di fatto del figlio unico rischia di creare uno squilibrio demografico che farà sentire i suoi effetti nei prossimi decenni. Inoltre, il suo sviluppo commerciale comincia a trovare degli ostacoli. L’accesso al Pacifico è reso problematico dalla presenza di rivali legati agli Stati Uniti come il Giappone e Taiwan, l’isola ribelle che la Cina considera parte integrante del suo territorio nazionale. Anche il progetto di creare una nuova via della seta non è di facile realizzazione, per i variegati ostacoli politici che incontra nel suo cammino.

A dispetto di queste difficoltà, tutto lascia prevedere che, in assenza di un conflitto, il concretizzarsi di un’egemonia cinese non sia questione di se , ma di quando. Nell’arco dei prossimi cinquanta/settanta anni i rapporti di forza tra le due superpotenze appaiono destinati a ribaltarsi.

Infine c’è la Russia. Economicamente non può competere né con gli Stati Uniti né con la Cina. Dalla sua ha però l’ estensione territoriale, il fatto di possedere le più grandi riserve di materie prime esistenti al mondo e la grande potenza militare, eredità del periodo sovietico e ulteriormente sviluppatasi in questi anni. Pur non potendo ambire ad un ruolo egemone, la Russia può decidere la partita tra i due principali contendenti, prendendo le parti dell’uno o dell’altro.

Questa dunque, la situazione all’inizio del conflitto. Le classi dirigenti degli Stati Uniti, che intendono fare del XXI secolo un nuovo secolo americano, si vedono sfuggire dalle mani l’obiettivo. Di fronte alla necessità di contenere la Cina, da tutti condivisa, si confrontano allora due diverse politiche.

L’ala legata all’industria tradizionale e che ha trovato in Trump il suo rappresentante, punta a riportare in patria parte delle produzioni delocalizzate in Oriente. A tal fine si vogliono porre dei dazi nei confronti delle merci cinesi, nel tentativo di limitare il passivo commerciale americano. Si tratta di ridefinire le relazioni commerciali in senso favorevole agli Stati Uniti.

Nei confronti della Russia i trumpiani ritengono necessaria una qualche forma di accordo, nella convinzione che essa possa essere attratta nell’orbita americana. Di qui la politica amichevole o, quanto meno, dialogante nei confronti di Putin.

L’altra ala, quella che sul piano politico viene espressa dalla famiglia Clinton e da Joe Biden, punta invece a sfruttare immediatamente il vantaggio che l’Occidente detiene in alcuni campi strategici: l’informatica, la farmaceutica, la finanza, l’industria dello spettacolo e dell’immaginario, quella degli armamenti. Sono questi i settori in cui gli Stati Uniti detengono ancora la supremazia. Bisogna dunque accelerare la transizione ecologica e digitale al fine di colpire a morte un produttore di materie prime come la Russia e limitare le capacità commerciali della Cina, subordinandola, in tal modo, per un periodo di tempo molto lungo. Nel far questo, si confida nella capacità degli Stati Uniti – e che solo essi hanno – di disporre a proprio piacimento delle classi politiche dei paesi alleati e di influenzare quelle dei paesi rivali, dove vi sono partiti e singole personalità (non escludo ciò avvenga anche in Cina, persino ai massimi livelli della dirigenza comunista) alle dirette dipendenze della segreteria di stato americana.

È quest’ultima ala, come sappiamo, che ha prevalso ed ha deciso l’attacco non convenzionale, evidentemente da tempo studiato nei dettagli , come si addice a tutti i piani di guerra, a Russia e Cina.

Prof. Silvio Dalla Torre

[seconda parte]

Illustrazione di copertina: Doug Chayka

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