
Stato di malattia permanente
Un governo può oggi tenere artificialmente in vita l’emergenza sanitaria soltanto perché ormai, grazie ad una narrazione apocalittica, si è imposta in molte nazioni soprattutto euro-occidentali la convinzione che una situazione considerata normale fino a due anni fa sia invece drammatica, tragica, fatale.
Le epidemie annuali di influenza fino al 2019 hanno colpito ogni anno centinaia di milioni di persone nel mondo, provocando centinaia di migliaia di decessi e riempiendo all’inverosimile reparti ospedalieri, terapie intensive incluse, nei periodi invernali di massima diffusione del contagio.
Da quando gira per il mondo il virus di Wuhan, i normali scenari sanitari provocati dall’influenza sono diventati praticamente intollerabili nel senso comune delle società “avanzate”. Anche la sola eventualità di una pressione sulle strutture sanitarie e di una crescita di ospedalizzazioni e decessi nelle fasce anziane della popolazione è sufficiente per giustificare restrizioni delle libertà fondamentali, controlli invasivi, obblighi terapeutici. Ed è difficile pensare che in futuro questa tendenza possa essere facilmente invertita, riportando il senso comune ai livelli precedenti, senza una riflessione collettiva schietta e onesta su quale possa essere un rapporto equilibrato, in una società moderna, con il rischio, la malattia, la morte.
Attualmente in Europa come in Nordamerica non c’è alcun eccesso di mortalità né alcun sovraccarico per le strutture sanitarie. La variante Omicron del Covid, descritta in termini terrorizzanti dai media e da molti governanti come una sorta di flagello di Dio, ha tassi di ospedalizzazione bassissimi e si comporta come un virus influenzale normale. Eppure sulla semplice base della paura di quello che potrebbe, chissà, accadere in futuro si continuano a paralizzare, opprimere, impoverire interi paesi.
In realtà il livello di accettabilità del rischio sanitario è stato abbassato fino a rendere sostanzialmente impossibile la vita di una società libera, e impone di fatto regimi di medicalizzazione e sorveglianza collettiva permanente.
In Italia la natura non sanitaria ma tutta politica e psicologica di questo passaggio è resa evidente dal fatto che oggi da parte del governo Draghi si parla di allarme, emergenza, necessarie restrizioni esclusivamente perché con il decreto legge del 23 luglio scorso lo stesso esecutivo ha fissato soglie assurdamente basse per il passaggio ai regimi restrittivi delle “zone a colori” regionali: il 10% di occupazione delle terapie intensive e il 15% dei reparti ospedalieri ordinari. Soglie del tutto irrealistiche, dato che ogni inverno nel culmine delle epidemie influenzali si va abitualmente oltre il 70, con punte di saturazione e blocco di interi nosocomi. Soglie che saranno certamente superate anche quest’anno. Chi le ha fissate lo sapeva benissimo, e lo ha fatto apposta per poter avere il pretesto di imporre nuovi lockdown, nonostante l’assenza di un pericolo effettivo per la società. E infatti ora si appresta ad imporli, nonostante l’altissima copertura vaccinale invocata fino alla nausea proprio come condizione per evitarli.
All’epoca in pochi avevamo previsto che sarebbe andata così, e ahimé non ci volevano facoltà divinatorie. I più non hanno dato peso alla cosa e non hanno alzato la voce per protestare contro un arbitrio ingiustificabile. E ora si continua a subire uno stato di eccezione in assenza di reale emergenza: schiavi del ricatto psicologico ormai consolidato in virtù del quale viene giudicata insopportabile anche una quantità minima o persino ipotetica di pericolo.
L’utopia del rischio zero si specchia nella plumbea realtà di un rischio massimo per la libertà, per il diritto, per la salute psichica e anche fisica della comunità: più ci si illude di assicurarsi una protezione totale, più si indeboliscono le naturali difese immunitarie, e la medicalizzazione integrale diventa stato di malattia permanente
Illustrazione di copertina: Pete Ryan

