Stato di (non) emergenza oltre le soglie della decenza
L’ulteriore prolungamento dello stato di emergenza in Italia sarebbe incostituzionale (come questo regime è fin dal 31 gennaio 2020), assolutamente ingiustificabile dal punto di vista sanitario (in questo momento non esiste nessuna emergenza sanitaria, ospedali e TI sono vuoti, la mortalità è sotto la media da mesi) ma purtroppo politicamente e culturalmente è molto prevedibile.
Solo gli ingenui potevano attendersi che non ci sarebbero state potenti spinte in questo senso, o che il governo Draghi, al contrario di quello Conte, ne sarebbe stato immune.
L'”emergenza” in Italia infatti non è un evento occasionale, ma un modo di essere, una visione del mondo. Ogni pretesto, per reiterata tradizione, è buono per derogare all’ordinaria amministrazione. E, una volta consentita una deroga, questa tende quasi per inerzia a perpetuarsi indefinitamente.
Perché l'”emergenza” consente alla macchina statale, cronicamente insofferente ai controlli democratici e ai limiti del potere, di poter operare, e soprattutto spendere pubbliche risorse ed estorcerne altre, con molta elasticità.
Perché quasi tutte le forze politiche non chiedono di meglio che confluire in governi trasformistici di unità nazionale, o in prassi consociative, attraverso le quali elargire una parte di quelle risorse alle proprie fasce sociali e territori di riferimento.
Perché l’esercito dei pubblici dipendenti – vera classe dominante della società italiana – e i sindacati del pubblico impiego nelle situazioni di “emergenza” trovano sempre il modo di strappare qualche privilegio, qualche esenzione, qualche indennità in più.
Il caso della “pandemia” da Covid 19 non fa eccezione. Anzi, la cronicizzazione dell'”emergenza” in questo caso riesce particolarmente facile, perché basta evocare la minaccia della “peste” sempre potenzialmente alle porte perché una larga parte tremebonda e credulona della società sia disposta a consentire al Leviatano qualsiasi cosa.
Dilatare lo stato di emergenza fino all’inverosimile significa soprattutto poter continuare a legiferare praticamente senza confronto parlamentare, elevando all’ennesima potenza la tendenza già cronica alla decretazione d’urgenza, che con i DPCM ha scoperto nuovi, magici orizzonti.
Significa mantenere in piedi tutta la struttura commissariale e il CTS, grandi serbatoi di posti e prebende di sottogoverno.
Significa conservare enormi poteri straordinari in mano ai governatori delle regioni, e ogni partito ne ha qualcuno. Significa continuare ancora, chissà fino a quando, con il cosiddetto “smart working” per statali, lavoratori dipendenti assimilabili e operatori dei servizi pubblici: cioè, in soldoni, lavorare comodamente almeno la metà con lo stesso stipendio, e in qualche caso con specifici incentivi economici in aggiunta.
Chi non vorrebbe continuare questa pacchia?
Ecco perché lo stato di emergenza sarà molto probabilmente ancora stiracchiato ben oltre le soglie della decenza e del ridicolo. Ecco perché qualcuno protesterà un po’, ma andrà bene quasi a tutti. In realtà non proprio quasi a tutti, ma ad una ampia, corazzata, minoranza corporativa.
Mentre non andrà bene per niente a tutta quella parte della società la cui vita dipende dalla produzione, dai consumi, dalla crescita. E a tutti i cittadini che amano le proprie libertà. Ma quella parte della società non ha praticamente voce nella politica e nelle istituzioni.
E la libertà, è sempre più chiaro, in questo paese è un bene assai poco popolare. Meglio servi, pensano in tanti, ma protetti e coccolati dal Leviatano.
Illustrazione di copertina: Francesco Ciccolella