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Su Green Pass e libertà di stampa

La presente nota tocca due questioni: l’operazione di politica tecnocratica prodotta con l’introduzione del Green Pass e lo stato della libertà di stampa nel nostro paese.

La seconda parte del testo riporta un articolo che mi è stato chiesto in data 30 luglio 2021 dalla “Stampa” di Torino e che non è mai uscito.

La prima parte è invece la semplice cronaca di ciò che è avvenuto dal 30 luglio ad oggi, e a mio avviso spiega molte cose senza bisogno di commenti addizionali.

***

In data 30 luglio sono stato contattato da una giornalista della “Stampa” (chiamiamola “A”), chiedendomi la disponibilità a scrivere un pezzo sul Green Pass. Ho accettato volentieri, perché nonostante la continua emorragia di lettori, la carta stampata rimane un veicolo importante di accreditamento delle opinioni.

Alla mattina di sabato 31 luglio ho ricevuto conferma della tempistica e dell’estensione dell’articolo: 70 righe per 60 caratteri da consegnare possibilmente in giornata. Lo spazio non era davvero molto per argomentare in modo articolato, ma ho comunque accettato. Alle 17.05 del giorno stesso ho dunque inviato l’articolo alla direzione del giornale, immaginando che, vista l’urgenza, sarebbe uscito l’indomani.

L’indomani ho notato che l’articolo non era uscito, ma sono abituato a questi piccoli contrattempi nei giornali, dunque ho atteso fiducioso.

Martedì 3 agosto, non essendo ancora uscito il pezzo, ho chiesto chiarimenti ad “A” e mi è stato garantito che il pezzo sarebbe uscito.

Sabato 7 agosto, mentre sgambettavo giù da un monte delle Alpi Giulie, mi è arrivata una telefonata da parte di persona a livello apicale nella redazione del quotidiano (chiamiamolo “B”; non ne preciso il ruolo per non renderlo identificabile). Nella cortesissima telefonata si scusava del ritardo e mi garantiva nuovamente che il pezzo sarebbe uscito. Avrebbe dovuto essere pubblicato in giornata, ma, fatalità, si era appena ritirato Valentino Rossi, e questo apparentemente occupava tutti gli spazi disponibili.

Altri 5 giorni dopo, giovedì 12 agosto, ho scritto ad A e ho spiegato che se il pezzo non fosse uscito entro Ferragosto mi sarei visto costretto a ritirarlo.

Dopo essersi detta in imbarazzo, A mi ha detto che avrebbe provato nuovamente a sollecitare.

Da un altro contatto che ho nel giornale (chiamiamolo “C”), mi è stato confermato che l’articolo era stato sollecitato più volte, ma, com’è come non è, ogni volta il direttore mancava di dare l’assenso.

Ora, un articolo scritto per un quotidiano è redatto, ovviamente, pensando a una situazione e un momento specifico. Non è un saggio che si rivolge alle generazioni future. Dunque rinviarne la pubblicazione sine die è un modo classico per renderlo obsoleto, e dunque inutile, e alla fine impubblicabile (senza passare formalmente per censori).

Per rispetto ad “A”, “B” e “C”, che hanno agito con cortesia e hanno cercato di darmi voce, non ne faccio i nomi per non metterli in imbarazzo. (Ma naturalmente se vorranno farsi avanti sono i benvenuti).

Questa piccola vicenda mi conferma nelle mie più tristi convinzioni circa lo stato dell’informazione in Italia. Ma non voglio qui aggiungere alcun commento, lasciando la nuda cronaca dei fatti alla valutazione del lettore. Segue l’articolo.

ALCUNE CONSIDERAZIONI SUL GREEN PASS

La strategia italiana sul Covid sfociata nell’adozione del “Green Pass” è eticamente preoccupante e pragmaticamente fallimentare.

Questo perché implica:

  1. una campagna moralistica che mina la convivenza civile;
  2. una violazione della deontologia medica consolidata;
  3. una strategia che allontana indefinitamente il ‘ritorno alla normalità’.

Provo concisamente a spiegare.

1) Il Green Pass è un’operazione di persuasione obliqua: si presenta come una misura per ridurre i contagi, ma è di fatto una manovra per spingere la gente a vaccinarsi. Chi prendesse sul serio lo scopo preventivo faticherebbe a capire perché senza Pass sia possibile ad un anziano recarsi in Chiesa o al Senato, ma non ad un adolescente recarsi ad uno spettacolo all’aperto. Il cuore del provvedimento sta però nello ‘sforzo persuasivo’, che ha preso sciaguratamente le forme di un’aggressione moralistica.

Nel momento in cui una decisione libera e legale viene investita da uno stigma morale promosso dall’alto è chiaro che, giù per li rami, questo stigma finirà per amplificarsi in forme parossistiche. Se le più alte cariche dello stato dicono che non vaccinarsi implica morire o far morire, o che vaccinarsi è un doveroso atto di responsabilità verso il prossimo, difficile che chi sia privo di remore istituzionali non traduca ciò in accuse ai non vaccinati di essere assassini irresponsabili o simili.

Così, la categoria “No Vax”, da designazione di un’esigua minoranza di soggetti ostili ai vaccini in sé è diventata una categoria morale, in cui accatastare come ‘impuri’ tutti i non vaccinati, ma anche i vaccinati dubbiosi. Pieno spirito di guerra con ricerca delle quinte colonne.

Capita così di sentire sindaci che suggeriscono ai non vaccinati di girare con un cartello al collo, virologi che ne parlano come di sorci da cacciare, segretari di partito che propongono di escluderli dall’elettorato passivo, sindacalisti che vogliono farlo per l’elettorato attivo, infermiere che minacciano di staccargli la spina, fino a sobri e diffusi auguri di avere un morto in casa.

Il problema del Green Pass non è dunque che leda in astratto la “libertà”, ma che la sua implementazione quotidiana ricordi così tanto gli orwelliani “due minuti d’odio”.

2) La formulazione italiana del Green Pass spinge a vaccinarsi, pena la morte sociale, tutti i cittadini dai 12 anni in su.

Ora, principio deontologico fondamentale è che un farmaco vada somministrato solo in caso di evidenza univoca che i benefici superino i rischi. Ad oggi, quest’evidenza nel caso di soggetti giovani e giovanissimi (in assenza di patologie pregresse) manca. Per questi gruppi i dati ci parlano di una malattia con letalità sostanzialmente nulla e scarsissima incidenza di complicanze.

Di contro, i vaccini attuali non danno garanzie circa gli effetti a medio o lungo termine. Da quando sono in uso su larga scala (7 mesi o meno), i loro bugiardini si sono impreziositi dei rischi di: trombosi atipiche (Vaxzevria), sindrome di Guillian-Barré (Janssen), miocarditi e pericarditi (Pfizer).

Chi e su che base può escludere che quella lista non crescerà ancora?

Chi è nella posizione di smentire quanto scritto nei contratti di fornitura (“gli effetti a lungo termine e l’efficacia del vaccino non sono attualmente noti e potrebbero esserci effetti negativi del vaccino che non sono attualmente noti”)?

Sotto queste condizioni la somministrazione di questi vaccini a giovani e giovanissimi è una pratica semplicemente inappropriata, perché non c’è evidenza che i benefici superino i rischi.

3) La strategia adottata mira a una vaccinazione rivolta idealmente al 100% della popolazione, con l’intento di “bloccare il virus ed evitare le varianti”. Questa meta è del tutto irrealistica.

Sappiamo infatti:

  • a) che il vaccino protegge il vaccinato, ma non arresta la capacità di contagiare;
  • b) che ad oggi solo il 14,4% della popolazione mondiale è pienamente vaccinata;
  • che già tra un mese dovranno ripartire i richiami dei primi vaccinati, perché l’immunità Covid (diversamente da casi storici come il vaiolo) dura solo 6-9 mesi.

Sotto queste premesse è fatale che il virus continuerà a circolare, dentro e fuori il paese, e a produrre varianti, rimanendo endemico come l’influenza. Una strategia di vaccinazione a tappeto (anche a chi ha gli anticorpi; anche ai giovani) insegue perciò un bersaglio irraggiungibile e ci spinge ad un’emergenza senza fine.

Prof. Andrea Zhok

Illustrazione di copertina: Rob Levin

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