Ti tirano le pietre
«Tu sei buono e ti tirano le pietre. Sei cattivo e ti tirano le pietre. Qualunque cosa fai, dovunque te ne vai, sempre pietre in faccia prenderai!» cantava Antoine nel 1967. Qualcosa del genere accade oggi, mentre una serie di inanellate «emergenze» chiede ogni volta soluzioni in deroga ai principi etici e giuridici che varrebbero in tempi «ordinari». I più attenti hanno già osservato che si è così normalizzato lo «stato di eccezione» teorizzato dai filosofi del diritto, cioè la sospensione a tempo indeterminato delle garanzie e dei vincoli che intrecciano la trama dello Stato di diritto e la conseguente espansione dei poteri governativi ben oltre le previsioni dell’architettura costituzionale (la quale, per inciso, non prevede alcuno stato di eccezione). Il prolungamento di queste forzature sta in effetti deformando il nostro modello sociale oltre il punto elastico di ritorno alla normalità. Nel diventare esso stesso normalità, sta agendo come la testa d’ariete di un’operazione riformistica che non teme né opposizioni né limiti, siano essi di natura parlamentare, elettorale etica o legale.
I più attenti ancora hanno notato che, per quanto diversi siano per intensità e natura i trigger dell’eccezione, i rimedi invocati sono sempre gli stessi e sempre peggiorativi del benessere materiale e sociale dei cittadini. Ne ho scritto su queste pagine all’alba della stagione «pandemica» e ne scrivo ora a proposito della guerra in corso in Ucraina. Cambiano i luoghi, i pericoli, i protagonisti e gli scenari, ma come «sempre, pietre in faccia prenderai».
Consideriamo la sospensione annunciata delle importazioni di fonti energetiche dalla Russia, che oggi coprono un quarto del nostro fabbisogno e soddisfano due quinti dei nostri consumi domestici e industriali di gas naturale, e quindi quasi un quarto di quelli elettrici. Che in altre parole, tracciano la linea tra noi e un paese in via di sviluppo. Ora, l’idea sembra essere che rinunciando a questa energia a costo di infliggerci una recessione mostruosa costringeremmo il governo russo a desistere dalle operazioni militari. Un’idea che in una persona di intelligenza media susciterebbe qualche domanda. Ad esempio: perché allora si continua a importare un decimo del nostro petrolio dall’Arabia Saudita, le cui bombe stanno causando nel confinante Yemen «la peggior crisi umanitaria del mondo» con trecentottantamila vittime e «un bambino sotto i cinque anni morto ogni dieci minuti»? Perché si consuma la benzina delle compagnie petrolifere che si sono impossessate dei giacimenti sottratti agli iracheni con una guerra di aggressione in cui quasi mezzo milione di persone hanno perso la vita? E perché non si rinuncia ai prodotti meno essenziali di chi sfrutta i bambini lavoratori, opprime le minoranze o pratica lo schiavismo in un’epoca – ricordano le principali organizzazioni internazionali del lavoro – in cui «ci sono più schiavi che in qualsiasi altro periodo della storia umana»?
Se queste domande sembrano ingenue (lo sono), allora serve un’ingenuità al cubo per accettare l’illogicità degli ultimi provvedimenti che, se all’intelligenza media si aggiungesse un pizzico di informazione media, si scoprirebbero anche inutili. Mentre infatti l’apporto energetico perduto dagli italiani non potrà essere rimpiazzato, i russi stanno già intensificando le esportazioni di gas verso la confinante Cina, prossimamente raggiunta da un secondo gasdotto transmongolico. La più grande potenza industriale del mondo assorbe da sola quasi il doppio dell’energia primaria consumata da tutti i paesi europei messi insieme ma sinora si è affidata principalmente al carbone (60% del mix energetico fossile) e al petrolio (20%), con i problemi ambientali e di continuità delle forniture che conseguono. Il mercato cinese del gas naturale è dunque quasi vergine e può abbondantemente compensare le perdite a ovest. Non abbiamo lanciato un boomerang: ci stiamo proprio sparando addosso.
La diade soluzione-problema così rappresentata è troppo assurda per non chiedersi se per caso non ne adombri un’altra, se non ci sia del metodo in questa follia. Spostando lo sguardo dal presunto destinatario al mittente, emergerebbero in effetti dalle nebbie del nonsense profili meno inauditi, se non proprio famigliari. Qualche sera fa il presidente di Nomisma Energia ha ammesso in televisione la necessità di razionare i consumi energetici per far fronte al nuovo scenario: «qua occorre una distruzione di domanda… una descrescita poco felice», ha scandito, aggiungendo poi che «i mercati ce lo chiedono da almeno sei mesi». I mercati? Sei mesi? Quindi da prima che partissero le operazioni russe (qui ad esempio la banca d’affari Citigroup, già l’ottobre scorso). Il problema è nuovo, ma la soluzione vecchia: l’austerity, che dopo le varianti fiscale e sanitaria annuncia ora la sua terza metamorfosi, quella energetica. Con la ripresa delle politiche monetarie espansive dopo l’ultima crisi ritorna in auge l’arnese preferito dagli investitori per frenare l’incubo inflattivo. Se per chi consuma non c’è gran differenza tra un aumento dei prezzi e una diminuzione del proprio reddito, a chi gioca coi soldi conviene di più la seconda perché preserva il valore dei crediti e mette in saldo i patrimoni pubblici e privati. Morale: se si alza lo spread ti tirano le pietre, se scoppia una pandemia ti tirano le pietre. E se la Russia va in guerra? Idem, ti tirano le pietre. Le stesse pietre.
E mentre si annunciano tagli di miliardi di metri cubi di gas, come non pensare agli appelli della ragazzina con le trecce e dei suoi accoliti del venerdì mattina? Come non fare due più due con le crociate istituzionali per la «decarbonizzazione», la «transizione ecologica», la riduzione dei «gas serra» e gli stili di vita più «sostenibili» (cioè più poveri) che martellavano già da anni? E che da almeno un decennio William Henry Gates III in arte Bill, il filantropo nemico del carbonio, vola ai quattro angoli del mondo a bordo di un jet privato da duemila litri di kerosene all’ora per ricordarci quanto fa male l’anidride carbonica? Felici coincidenze, davvero. Come non ricordare i blackout europei profetizzati dal nostro ministro Giorgetti già nel novembre scorso, dal ministro della Difesa austriaco un mese prima, da Goldman Sachs due mesi prima? Se il finale è già scritto, ogni trama è buona: ti tirano comunque quelle pietre.
Tanto vale allora esercitarsi a indovinare gli epiloghi, più che a inseguirne i pretesti. Se non ci sarà gas per tutti e se, come ha suggerito il presidente dell’Agenzia federale tedesca delle reti in un’intervista, le conseguenze dell’embargo russo costringeranno molte famiglie ad avvalersi di aiuti statali per riscaldarsi, non è bizzarro immaginare che lo stesso meccanismo telematico di premialità – cioè di punizioni – introdotto con il green pass possa estendersi anche al godimento di questo servizio. La combinazione dei nuovi contatori elettronici dotati per la prima volta di una valvola azionabile da remoto e della piattaforma IDpay «che permetterà ai cittadini di accedere ai bonus e alle misure di sostegno che i diversi governi metteranno a punto in futuro» renderebbe agevoli le annunciate «modulazioni nella fornitura di elettricità e di gas per gli usi domestici» secondo i requisiti «virtuosi» di volta in volta fissati dal legislatore. Il che darebbe anche finalmente un senso all’aggettivo green attaccato al lasciapassare sanitario su sfondo bianco. Con il Covid ti tirano le pietre. Con le bombe ti tirano le pietre.
Lo stesso gioco può applicarsi agli altri non sequitur della vulgata. Ci si aspetterebbe, chessò, che chi dice di voler fermare un «dittatore» nemico del «mondo libero» dia un esempio di pluralità e di libertà, per essere più credibile. Ma se al contrario lo fa stilando liste di proscrizione, incarcerando, licenziando e infangando chi canta fuori dal coro, censurando i giornali, taroccando le immagini sui mass media, promuovendo l’odio a senso unico, pretendendo pubbliche abiure in stile maoista e aizzando un maccartismo tragicomico che non risparmia neanche i morti di due secoli fa, allora i conti non tornano. Fossimo in un ambulatorio psichiatrico (e poco ci manca), diremmo che il paziente è affetto da identificazione proiettiva, attribuisce cioè agli altri i suoi problemi irrisolti. Ma se di nuovo accantonassimo il motivo, ritroveremmo volti già noti. La guerra alle «fake news» con licenza di censurare e perseguire le opinioni non ufficiali nasce assai prima di quella d’Ucraina. L’avventura pandemica aveva già tracciato il solco e versato il letame del selfie vaccinale e del QR come auto-da-fé, della rimozione dei contenuti telematici «negazionisti» (cioè critici), dell’emarginazione dei renitenti e della radiazione dei dissidenti dagli albi professionali. Era già in corso la repressione della libertà di esprimersi, opinare e confrontarsi che è il requisito del conoscere e del convivere senza conflitti. Ancora, cambia l’angolo di tiro ma non le pietre, in questo caso tombali.
(Detto poi tra parentesi, anche chi si picca di dar lezioni di democrazia dovrebbe dotarsi di un parlamento che rappresenti le opinioni degli elettori e non di un’ammucchiatadi pappagalli che ripetono i grugniti del padrone, quando ad esempio «per il 69% [dei cittadini] l’Italia deve negoziare con la Russia» (IPSOS) e per il 44% di loro «l’invio delle armi alla resistenza ucraina è sbagliato e deve essere interrotto» (EMG). E chi si erge a paladino del diritto non dovrebbe requisire senza processo case, barche e conti correnti di chi ha solo il torto di essere nato o di trovarsi nel posto sbagliato. Oggi accade ai russi perché sono «cattivi». E domani, chi sarà il cattivo? Chi non accoglie i profughi, chi non si vaccina, chi accende il condizionatore, chi scrive cose «sbagliate» su Facebook? Se tutto giustifica tutto, allora tutto è possibile).
Poco decifrabile è anche la scelta di integrare nella nostra sanità migliaia di operatori sanitari provenienti dal teatro del conflitto senza abilitarli. Sorvoliamo su quanto ciò sia profondamente ingiusto verso i tanti stranieri, molti dei quali in fuga dalla violenza, che hanno dovuto invece sudarsi i titoli italiani. E fingiamo pure di non chiederci come riesca un professionista che non conosce la nostra lingua a rapportarsi con colleghi e pazienti, raccogliere anamnesi, leggere e stilare referti, eccetera. Concentriamoci però almeno sul fatto che fino a ieri eravamo noi a mandare i medici nei paesi in guerra. Con quale logica si passa ora dal sostenere Emergency e Medici Senza Frontiere all’agevolare l’esodo dei camici bianchi da una nazione bombardata che ne ha più bisogno del pane? E a mandare in cambio bastimenti di armi? Se tenessimo tutte le premesse per buone, nessuna. Se invece considerassimo la faccenda in sé, vi riconosceremmo di nuovo le fattezze più solite dell’immigrazione economica, di una «allocazione ottimale dei fattori produttivi» da manuale i cui effetti compressivi su rivendicazioni e salari sono ancora gli stessi denunciati nel famoso carteggio sulla «questione irlandese». Non potendosi delocalizzare i servizi alla persona fisica, si localizzano i fattori umani con contratti meno onerosi, avendo prima rimosso le barriere commerciali all’ingresso (l’abilitazione alla professione) come predicano i mercati «liberi» e globali, quelli in cui i lavoratori sono appunto fattori, merce, commodities collocabili alla bisogna.
Sarà perciò un’altra coincidenza felice che questo provvedimento inedito cada a distanza di un anno da un altro inedito provvedimento, di allontanare dal servizio i sanitari che non hanno accettato di farsi iniettare per tre volte un farmaco di nuova invenzione. Da un lato, l’apporto del personale dall’est aiuterà a colmare le carenze storiche degli organici della sanità e specialmente le posizioni lasciate vacanti da medici e infermieri sospesi a condizioni più vantaggiose (i contratti offerti sono a tempo determinato o in libera professione). Dall’altro indebolirà il potere contrattuale dei sospesi rendendoli, almeno sulla carta, meno indispensabili al sistema, deflazionandoli cioè come tutto il resto. Se c’è la Cina, ti tirano le pietre. E se c’è l’Ucraina te le tirano ancora, con gli interessi.
Non conosco né sarei in grado di comprendere a fondo i retroscena dell’operazione russa in Ucraina. Né saprei dire fin dove si spingeranno le contromosse nostrane. Ma vedo fin troppo bene quali pietre ci pioveranno in faccia, comunque vadano le cose. Perché i ragionamenti (chiamiamoli così) dell’emergenza infinita sembrano tante fiabe diverse che finiscono però tutte con la strega nel forno: anche quando non ci sono né streghe, né forni. Sicché dopo averne lette due o tre francamente mi stanco. Come ho scritto altrove, ritengo che questa educazione al diversivo e all’illogico integri una vera e propria pedagogia di governo che mira a dissolvere la percezione della contraddizione per trasformare ogni evento – vero o falso, piccolo o grande, naturale o artificiale, imprevisto o voluto – nel carburante plausibile di un programma già in corso. Il solvente di questa dissoluzione è appunto l’emergenza in cui si attiva un’ansia di «fare» tipica dell’orizzonte moderno. E giacché quell’improcrastinabile «fare» non può che svolgersi nell’ambito del fattibile, chi fissa il perimetro degli agibilia decide anche gli agenda, cioè le uniche pietre – pardon, soluzioni – possibili.
Il Pedante / Illustrazione di copertina: Alice Wellinger