Cultura,  Società

Tolstoj e l’arte al tempo del rogo dei libri

Là dove si bruciano i libri, si finisce per bruciare anche gli uomini. Così scriveva il poeta tedesco Heinrich Heine. Nel 2022, dopo lo sceicco Omar nel VII secolo con la biblioteca di Alessandria, summa della sapienza antica, in continuità ideale con i roghi nazisti nel 1933, il ministero ucraino della Cultura (???) ha ordinato la distruzione di cento milioni di copie di libri. Sono testi in lingua russa, o tradotti dal russo, lingua materna (vietata) di milioni di ucraini. Il decreto voluto da Volodymir Zelensky non risparmierà Alexsandr Puskin, Leone Tolstoj, Fedor Dostoevskij e, nel campo artistico, espellerà Vassili Kandinskij, innovatore della pittura del XX secolo.

Non sappiamo se si salveranno Gogol e Bulgakov, ucraini che scrissero in russo. Altro che cultura della cancellazione! I dirigenti ucraini si trasformano in patroni di un’attitudine che Vittorio Sgarbi chiama “depensante”. D’altra parte, c’è poco da aspettarsi da un presidente comico di professione, il cui cavallo di battaglia era una gag in cui fingeva di suonare il pianoforte con il pene.

In controtendenza con il dilagare di una penosa russofobia, segno di regressione etica prima che di ignoranza, ci piace reagire al rogo dei libri ricordando un’opera considerata minore, ma non poco interessante, di Leone Tolstoj, il grande, visionario romanziere russo e cristiano di Guerra e Pace, Resurrezione, Anna Karenina, autore di racconti dell’intensità de La morte di Ivan Ilic e Sonata a Kreuzer. Nel 1897 vide la luce Che cos’ è l’arte? trattato filosofico che impegnò Tolstoj per quindici anni, un lungo processo di riarmo spirituale, espresso in opere quali Confessione, Qual è la mia fede o Il regno di Dio è in voi.

Per Tolstoj, uomo di altissima coscienza morale che esercitò una forte influenza sulla Russia del suo tempo, l’etica deve prevalere sull’estetica e la sua idea di arte è che la creazione debba corrispondere alla coscienza religiosa di un popolo. La tesi di fondo è che “l’arte è un organo morale della vita umana, un mezzo di perfezionamento per l’umanità, ma soltanto se è buona e veritiera”.

Leone Tolstoj analizza le teorie estetiche di un gran numero di autori, tutte centrate sui concetti di bellezza, verità e bontà, sottolineando che il collegamento tra questi concetti è fonte di confusione. Il lungo cammino di moralista cristiano lo porta a respingere un concetto classico, ossia che la bellezza sia associata alla verità o alla bontà: “La bellezza è solo ciò che ci piace e, di conseguenza, la nozione di bellezza non solo non coincide con quella di bontà, ma piuttosto differisce da lei; perché la bontà spesso coincide con una vittoria sulle nostre passioni, mentre la bellezza è alla radice di tutte. Con la bellezza la verità non ha il minimo rapporto e molto spesso è in contraddizione con essa; poiché la verità generalmente produce delusione e distrugge l’illusione, che è una delle condizioni principali della bellezza”

Una posizione che lo allinea ad Aristotele per il quale l’arte deve avere un’influenza morale e al fondatore dell’estetica, Alexander G. Baumgartner. Opposta è la convinzione di idealisti come Johann J. Winckelmann, che nega che l’arte debba mirare a un fine morale diverso dalla bellezza o di Hegel per il quale “la bellezza è l’espressione sensibile della verità”.

Tolstoj riflette sulla difficoltà di riconoscere la verità. “So benissimo che la maggioranza degli uomini, anche i più intelligenti, difficilmente riconosce una verità, anche la più semplice e ovvia, se questa verità li costringe a considerare false idee che hanno formato con grande fatica, idee alle quali si aggrappano, che hanno insegnato ad altri e su cui hanno fondato la loro vita” Affermò inoltre, che “la sincerità è una condizione essenziale dell’arte”, la stessa tesi dello spagnolo Miguel Unamuno, per il quale la sincerità è la virtù principale e il segno distintivo della vera arte.

Molte delle osservazioni dello scrittore russo sui poeti simbolisti di fine Ottocento (Verlaine, Mallarmé, Rimbaud) sono simili alle critiche espresse in seguito verso le avanguardie più famose. Tolstoj afferma: “Non solo l’affettazione, la confusione, l’oscurità sono state elevate a categoria di qualità, e anche a condizione di tutta la poesia, ma stanno per stabilire il scorretto, l’indefinito, il non eloquente come un luogo per le virtù artistiche”. Un giudizio senza appello contro la disumanizzazione dell’arte che diventerà il tratto più eloquente del Novecento. Denunciò “l’oscurità eretta a dogma artistico” Così Tolstoj si esprime riguardo a Baudelaire: “l’autore si preoccupa di apparire eccentrico e oscuro. Questo desiderio di tenebre è ancora più evidente nella sua prosa, nella quale, se volesse, potrebbe parlare chiaramente”. Di Verlaine, “ubriacone che scriveva versi incomprensibili”, dice che le sue produzioni poetiche non sono meno false e incomprensibili di quelle di Baudelaire.

Possiamo dissentire, ma non possiamo non rilevare che la sua bussola è la chiarezza nell’esposizione, l’accessibilità, la capacità dell’arte di toccare le corse sensibili dell’animo umano, con intenti di elevazione morale e spirituale.  Un altro elemento che attira la nostra attenzione, alla luce della soffocante censura dell’attuale moda politicamente corretta, è il linguaggio; netto, senza complessi. “La mia incapacità di comprendere le opere delle nuove scuole deriva dal fatto che in esse non c’è nulla di comprensibile”. E spesso neppure di umano, ma questo Tolstoj, morto nel 1910, non poteva ancora saperlo.

“Ci viene detto che per capire queste opere dobbiamo vederle, leggerle e ascoltarle molte volte. Questo non si può chiamare spiegarle, ma abituarsi ad esse. Ci si può abituare al cibo cattivo, al brandy, al tabacco e all’oppio; allo stesso modo ci si abitua alla cattiva arte. Questo è esattamente ciò che accade”. E’ quello che sta accadendo oggi – anche se nessuno osa dirlo – quando fin dalla scuola viene inculcato il falso paragone tra un’arte virtuosa e una falsa, in cui sono assurdamente equiparati un Velázquez e l’ultimo espressionista astratto. Tolstoj affronta senza complessi il condizionamento educativo mettendo in discussione perfino un’opera indiscutibile, la nona sinfonia di Beethoven: “Non vedo come i sentimenti espressi da quella sinfonia possano unire uomini che non sono stati educati né sono disposti a subire quell’ipnotizzazione artificiale.”

Il grande romanziere russo è un potente pensatore che smonta le contorsioni e fumisterie verbali dei cattivi artisti e del loro corifei a giustificazione di un’arte oscura: “Se l’artista avesse saputo spiegare con le parole ciò che vuole trasmetterci, si sarebbe espresso con le parole”. La condanna è senza appello: un linguaggio indecifrabile salvo a una minoranza di iniziati (veri o sedicenti) è contrario alla missione comunicativa delle arti. Per Tolstoj esiste una profonda ragione morale per cui l’opera artistica deve essere accessibile alla maggioranza. “L’arte perversa può non piacere alla maggior parte degli uomini, ma la buona arte deve per forza piacere a tutti”. O almeno suscitare una forte impressione, la stessa che produsse in chi scrive la visione improvvisa, nella londinese National Gallery, della Cena in Emmaus di Caravaggio, o quella che provava un russo dell’Ottocento dinanzi alla forza politica e allo sdegno morale dei Battellieri del Volga di Ilja Repin.

Tolstoj entra in collisione frontale con la pretesa intellettualistica di pochi che rivendicano l’esclusività e il diritto di definire l’arte: “Le grandi opere d’arte sono grandi perché tutti possono capirle perfettamente. Se un’arte non riesce a commuovere gli uomini, non è perché questi uomini manchino di gusto e di intelligenza; è perché l’arte è cattiva o non è affatto arte”. L’ arte di qualità produce nello spettatore la sensazione viva “che i sentimenti che trasmette non provengano da un’altra persona, ma da se stesso, e che ciò che l’artista esprime, lui stesso ha pensato per molto tempo di esprimerlo”. Un’ intuizione forte: l’arte porta alla luce sentimenti, concetti, idee che ciascuno ha dentro di sé, è maieutica, levatrice di ciò che è latente nell’animo.

Tolstoj non aveva paura di mettere in discussione i dogmi del suo tempo. Ad esempio l’ossessione per l’originalità a ogni costo, glorificata dalle avanguardie come massima qualità dell’arte, che sfocia spesso in bizzarria, gratuito pugno allo stomaco. “E’ del poeta il fin la meraviglia”, sosteneva Giovan Battista Marino, ma di lui è rimasta solo la formula. Tolstoj liquida gran parte dell’arte a lui contemporanea: “il suo campo d’azione, a forza di limitarsi sempre più, si restringe a tal punto che agli artisti delle classi alte sembra che tutto sia stato detto e che non si può dire nulla di nuovo. Da qui deriva che, per rinnovare la propria arte, cercano costantemente nuove forme”.

L’irragionevolezza, la degenerazione e la funzione negativa dell’arte sono frutto di élite irresponsabili e noiose. “Poiché le classi superiori, avendo perso la fede nelle dottrine della Chiesa, rimasero senza fede alcuna, non c’è niente che si possa chiamare arte europea o nazionale. Da allora l’arte dei ceti alti si separò da quella professata dal popolo e vi furono due arti: quella del popolo e quella dei delicati, gli uomini che, avendo potere e ricchezza, pagavano e dirigevano gli artisti. Incapaci di accogliere il vero cristianesimo che condannava il loro modo di vivere, i ricchi e i potenti dovettero ritornare alla concezione pagana che faceva consistere il senso della vita nel piacere personale”.

Un grido profetico che ascoltiamo con stupefazione, eredi di una non-arte divenuta commercio, meraviglia, gioco di parole, abuso della credulità di un pubblico diseducato.  “Dal momento in cui le classi superiori della società hanno perso la fede nel cristianesimo, il piacere artistico ha dato loro la norma dell’arte buona e cattiva”. Oggi neppure questo: è arte ciò che critici e intellettuali di servizio decretano tale, nel silenzio di un pubblico che non capisce ma si vergogna ad esprimere perplessità o rifiuto.

Tolstoj aggiunge un’acuta osservazione – perfettamente valida oggi – per spiegare l’impero della volontà di pochi sulla maggioranza grazie al pigro conformismo di una massa che rinuncia a elaborare autonomamente i propri criteri e le proprie idee.“ Uomini indifferenti all’arte, in cui la facoltà di emozionarsi era pervertita e in parte atrofizzata, accolsero servilmente l’opinione dei principi, dei finanzieri e di altri dilettanti che, a loro volta, accoglievano l’ opinione di coloro che esprimevano la loro idea a voce più alta o con tono più sicuro”.

Il conte russo è corrosivo nei confronti degli artisti che, trasformati in “menestrelli dei ricchi”, contribuiscono non solo alla cattiva arte ma a una dinamica perniciosa. Niente che non osserviamo anche noi nel gusto delle classi dominanti, nel potere dei mercanti, nella logorrea dei critici “sotto il velame de li versi strani” (Dante). La verità che ci consegna Tolstoj è che “qualunque sia la nuova follia che si manifesta nell’arte, non appena le classi superiori della nostra società la adottano, si inventa una teoria per spiegarla e sanzionarla”, per quanto falsa, deforme, svuotata di senso.  

Nessuna esitazione a condannare “l’arte inutile o dannosa”, le sue “perniciose conseguenze”, rifiutando buona parte dell’arte del suo tempo. Così scrive: “è preferibile rinunciare a tutte le arti piuttosto che sostenere l’arte che esiste oggi e deprava gli uomini”. “L’artista capirà che produrre una favola, purché diverta, o una canzone, o una farsa, purché distragga, o un quadro, purché piaccia a migliaia di persone, è più importante che comporre un romanzo, un dramma o un quadro che per un certo tempo divertirà un piccolo numero di ricchi e sarà poi dimenticato”. Da un punto di vista che può apparire manicheo, benché sincero nella difesa di un’arte morale, Tolstoj fa notare qualcosa che già ai suoi tempi era stato dimenticato: “la scienza che distingue il bene dal male porta il nome di religione”. Una riflessione opportuna soprattutto oggi, in tempi in cui ogni riferimento al bene è sepolto, e ceti dirigenti ignoranti e senza scrupoli, spalleggiati da intellettuali disonesti, si ergono a sacerdoti di una nuova moralità contro Dio, l’uomo, la natura e la sua legge. Le idee di Leone Tolstoj sull’arte possono essere discutibili, ma restano il lascito di un grande spirito, il cui torto è quello di essere stato russo, come in tempi diversi erano negate altre origini. Gli ucraini non lo potranno più leggere. Si invera la profezia di Ray Bradbury in Fahernheit 451, il tempo dei pompieri incendiari, incaricati di bruciare i libri per cancellare storia, memoria, verità. Nel romanzo distopico un uomo, Guy Montag, diventa custode della conoscenza, mentre alcuni volonterosi imparano a memoria libri interi per trasmetterli a chi verrà dopo di loro. E’ quello che auguriamo al popolo ucraino, culla della complessa identità russa, che non può cancellare né considerare estranei giganti come Leone Tolstoj.

Roberto Pecchioli

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Illustrazione di copertina: Ivan Canu

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