Troppi ricoverati in terapia televisiva
Il virus della mala comunicazione è più drammatico di tutti, colpisce senza quasi lasciare sopravvissuti. Un’ora al giorno di televisione italiana già basta per rischiare l’irreversibilità degli effetti avversi. Le cure sperimentate e risultate efficaci con una buona percentuale comprendono lo spegnimento definitivo dello strumento e, meglio ancora, la sua defenestrazione quale forma di igiene fisica e mentale. Il guaio è che da un virus talvolta ne scaturisce un altro, o perlomeno gli apre le porte, ed è questo il caso del dataismo.
Si tratta del sistema di comunicazione politica basato sui dati: in un mondo che tutto riporta ai dati e alla loro interpretazione ogni cosa, dai bit del digitale ai contagi epidemiologici, passando per i numeri della finanza e i codici a barre su ogni oggetto e documento d’identificazione, il dato è uno degli elementi determinanti per la configurazione dell’immaginare collettivo costruito negli ultimi due anni. Pensiamo ai “bollettini di guerra” stilati e trasmessi ogni giorno, fra contagi, ricoveri, tamponi, terapie e morti, ma anche allo stabilimento di percentuali, grafici, tabelle e all’utilizzo del lessico statistico che ad esse si collegano. Senza i dati, la narrazione pandemica crollerebbe subito. Senza sapere cifre di contagi, di morti, paragoni, senza vedere in televisione e sui social il mantra ininterrotto dei dati, niente di ciò che stiamo vivendo sussisterebbe.
Chi per caso stesse pensando che non si tratta di una questione politica, verrebbe smentito dalle parole dello stesso presidente Draghi del 22 dicembre 2021, dove ha detto che tutto ciò che è stato fatto è stato fatto in virtù dei dati. Possiamo effettivamente citare il primo articolo della nuova Costituzione che recita: “L’Italia è una Repubblica fondata sui DATI. La sovranità appartiene a Draghi che la esercita nelle forme e nei limiti dei Dati”. Il guaio è che questa non è una battuta, ma una realtà fattuale con cui ci scontriamo. La dimensione politica del dato è parte integrante del paradigma biopolitico della new governance che ha segnato il mondo da ormai più di venti mesi.
D’altronde, la datizzazione dei cittadini è un processo che affonda le sue radici molto indietro nel tempo[1] e non sarebbe stata possibile senza un’attenta e pervasiva introduzione dell’elemento tecnologico nella quotidianità. Senza che nemmeno ce ne rendiamo conto, scambiamo costantemente un flusso enorme di dati attraverso numerosi dispositivi e, a nostra volta, ne produciamo con la nostra sola esistenza all’interno degli apparati di calcolo e controllo digitale. In sé, i dati non sono un qualcosa di negativo; il malessere sopraggiunge quando non li si sanno trattare e, come avvenuto in questi mesi, diventano un problema ermeneutico e di conseguenza esistenziale.
La questione dell’interpretazione è fondamentale, perché la comunicazione punta tutto sul feedback, che in questo senza è un qualcosa di profondamente biopolitico dal momento che la percezione sociale del dato è ciò che lo qualifica ed implementa, o squalifica e fa cessare di efficacia. Proviamo a pensare per un attimo a come sarebbero i numeri dei bollettini pandemici quotidiani se non sapessimo che sono riferiti alla cosiddetta pandemia: con molta probabilità, ignoreremmo come abbiamo sempre fatto quei numeri, continuando le nostre vite, con la consapevolezza che ogni giorno c’è chi si ammala, chi muore, chi guarisce, chi nasce e così via. È la cornice comunicativa che specifica la nostra interpretazione e la guida, così come indirizza il nostro pensiero in generale.
Vivere immersi in un contesto di comunicazione politica basata sul catastrofismo dei dati, giocando per di più sull’ignoranza tecnica della lettura di essi, induce alla legittimazione del controllo dei dati come forma di soluzione al panico che essi generano. In poche parole, chi controlla i dati o perlomeno dà l’impressione di riuscire a modificarli – che siano dati veri o no poco importa – assume all’opinione pubblica i tratti di un messia redentore, perché interrompe per un attimo la trama negativa che appesta l’immaginario collettivo.
Per questa ragione si può dire che ci sono troppi ricoverati in terapia televisiva, perché troppi sono coloro che fanno dei dati comunicati il criterio di discernimento ed azione. L’adattamento comportamentale, in un clima di paura e controllo dell’esistenza, è talmente forte da richiedere una reazione almeno uguale e contraria per disinfettare il soggetto e restituirgli un barlume di lucido raziocinio. Alla fine dei conti, non saranno i dati a migliorare la nostra vita, né tantomeno a salvarci da un virus da zero virgola. E questo è l’unico dato di cui forse dobbiamo davvero tener conto.
[1] In Italia nel 1993 con il Decreto Legislativo n. 39 venne istituita l’Autorità per l’informatica nella pubblica amministrazione, seguita nel 2001 dal Dpcm del 9 agosto che diede vita alla figura del Ministro senza portafoglio per l’innovazione e le tecnologie, cui fece seguito un Dipartimento dedicato all’interno della Presidenza del Consiglio il mese successivo e, in particolare con la Legge finanziaria del 2003, la prima a prevedere un’ingente stanziamento di fondi per la digitalizzazione del Paese, la creazione di archivi digitali, l’ammodernamento degli impianti e degli strumenti e un Centro nazionale per l’informatica nella PA. Da lì, lo sviluppo verso il pieno controllo del dato è proseguito speditamente (D.Lgs. 82/2005, D. Lgs. 159/2006, ma anche il documento Linee guida del Governo per lo sviluppo della Società dell’informazione nella legislatura del 31/05/2002), passando per il delicato ingresso dell’infosfera fra i domini di guerra, il quinto per l’esattezza, come affermato dal Pentagono nel 2006. La Carta nazionale dei servizi risale al D.Lgs. 10/2002, mentre la Carta d’identità elettronica alla Legge 127 del 1997.
Idee&Azione / Illustrazione di copertina: Mario Sanchez Nevado