Un arcobaleno di grigiore
L’umanità è varia, la vita è assai complessa e mutevole e voler restringere tutto a due soli generi o a una differente identità sessuale è sciocco, banale e fuorviante. Ideologicamente fasullo. E poi, voler accerchiare l’esistente in un’assurda confusione di tendenze è un rimedio -spacciato per progresso- molto peggiore del presunto male. A maggior ragione oggi – 2021 – che abbiamo toccato le 70 diverse tipologie di inclinazioni sessuali, delle quali ciascuna può essere moltiplicata a sua volta per 6. Totale? Si contano almeno 420 diverse identità…
La battaglia di supposta libertà infuria su due fronti contrapposti: quello di chi usa il gender (termine inglese che fa figo, ma non sposta il problema) come una clava sugli appartenenti al mondo LGBTQ e via discorrendo, quello che con il fluid gender denuncia una omofobia ben più contenuta di come la si vorrebbe percepire, una sorta di amplificato allarme (i dati dicono questo) utilizzata come minaccia permanente, per raggiungere obiettivi politici prima ancora che pacificazioni sociali.
Io provengo da una generazione che ora appare lontana nel tempo. I miei diciotto anni hanno le loro radici nel millennio passato, le affondano fino a 40 anni fa. Quando la realtà era davvero più difficile, quando non ci si scandalizzava per una parola ma esisteva la logica del ‘diverso’, lo si additava e si spettegolava al suo passaggio, con annesse risatine e gomitate neanche così nascoste. Anni nei quali aggressioni, violenze e alienazioni sociali erano sicuramente assai più evidenti e numerose di adesso, che hanno però più cassa di risonanza mediatica.
Ma la rivoluzione l’abbiamo fatta proprio noi, in silenzio e senza le ostentazioni folkloristiche, a tratto blasfeme e oscene dei gay pride. Una rivoluzione vera che ha dato al ‘terzo genere’ spazio di crescita e dignità, senza il bisogno di acronimi, senza necessità di moltiplicare sigle e definizioni. Perchè abbiamo sempre inteso la libertà come un concetto chiaro, ben delineato ma estremamente personale. Ognuno ha pieno diritto di essere ciò che è, di sentirsi ciò che gli pare senza classificazioni ulteriori, ma pure senza doverlo certificare per legge.
Le provocazioni le abbiamo lasciate a scrittori e poeti, ad artisti e cantanti, apprezzandole e sostenendole. Difendendole, mai giudicandole. Abbiamo amato e amiamo David Bowie e Prince, Renato Zero e Amanda Lear, Elton John, Annie Lennox, Freddy Mercury e George Michael e Morrissey, i Pet Shop Boys e Kate Bush. E pure la Wahrol Factory e Quentin Crisp. Li abbiamo amati e li amiamo senza porci mai il problema delle loro preferenze sessuali, invidiandone spregiudicatezza e carattere. Abbiamo difeso la loro libertà e la nostra di apprezzarne testi che oggi sarebbero giudicati sessisti.
Andate a rileggere le parole dei brani dei Led Zeppelin, dei Deep Purple, di Neil Young o degli Eagles, di Piero Ciampi. Abbiamo contribuito a far eleggere la voce di Boy George la migliore espressione vocale femminile degli anni ’80. E abbiamo ballato Sylvester e Jimmy Sommerville senza farci domande, ma applicando il rispetto con i fatti e non con le teorie. Tant’è che la tanto rivendicata libertà sessuale è arrivata, si è imposta, ha posto le basi per una società di coppie non necessariamente ‘tradizionali’, ma senza dichiarare guerra alla società.
La stessa cosa vale per altre giuste battaglie, abbiamo combattuto il razzismo fra la gente e senza bisogno di inginocchiarci e chi sbandiera oggi cifre abnormi di violenze, rispetto a mezzo secolo fa, mente. Abbiamo aiutato le donne a costruirsi una parità reale, spesso finendo tuttavia col rovesciare le ingiustizie o ritrovandoci ora prede di culture tribali che vorrebbero tolleranza. Ma non c’erano leggi a costringerci né a essere solidali nè partecipi. Non c’erano dei guardiani della parola e del pensiero e neppure c’erano decreti legge a propugnare stupide censure.
Penso al ‘Male’, a ‘Frigidaire’, ai filmetti sexy, alle battutacce da caserma e -pure tornando indietro di quasi mezzo secolo- scopro che noi eravamo invece tanto più avanti. Per davvero liberi di essere e non prigionieri del messaggio globale che tutto e tutti vorrebbe controllare. Ed eravamo più semplici, più veri, meno ottusi, meno indottrinati. Non avevamo retropensieri né ossessioni e godevamo ogni piega e ogni singolare essenza dell’esistenza. E lasciavamo che l’arcobaleno fosse riservato ai pittori e ai poeti, ai fotografi e agli innamorati.
Un arco luminescente e colorato, libero di aprirsi nel cielo, non ostaggio di un’ideologia che se ne è appropriata rendendolo grigio e oscurantista. Qualcuno dice che quelli della mia generazione non amano l’arcobaleno e i tanti messaggi che gli si vorrebbero affidare. Non è vero. È che sotto l’arcobaleno siamo tutti uguali ed è assurdo che chi vorrebbe diffondere uguaglianza, cada in contraddizione cercando di imporre il riconoscimento di 420 differenze. Qualcuno dice che questa è l’età del sole per i diritti civili e che la mia generazione vissuta nella pioggia non può capire.
Nulla di più sbagliato. Come dice Paulo Coelho, “chi desidera vedere l’arcobaleno, prima deve imparare ad amare la pioggia”. E io, ancora zuppo di vita al contrario di tanti falsi profeti, so vedere l’arcobaleno, quello vero. Multicolore e così splendente da illuminare l’orizzonte. Il vostro, amici miei, così pieno di proclami e limitazioni, veleno e rabbia, è tremendamente spento, incoerente, stupidamente rissoso e ignorante. Vuoto. E grigio. E cerca appigli tra gli orizzonti pur di rimanere visibile. Beh, sappiatelo, il nostro arcobaleno nasceva e moriva nell’anima. Era più vero e più sincero. E infinitamente più libero.
Illustrazione di copertina: Armando Veve